Prosegue da qui
Dopo un paio di giorni passati a Nis, tra la fortezza turca e le rovine romane, mi avviai verso Studenica.
La strada da percorrere era tanta e scelsi la cittadina di Aleksandrovac come un buon posto per affrontare la notte.
Per arrivarci dovetti percorrere numerosi tornanti, in una discesa che spesso sfiorava la folta vegetazione che sporgeva sulla stessa strada come tante braccia protese verso di me.
Scelsi di alloggiare nell’unico hotel allora disponibile, un vecchio edificio di chiaro stampo comunista, con larghe scalinate e ampi corridoi. La camera, seppur grande, era davvero spartana. Ma a me bastava.
La sera me ne andai in giro, e, per una tranquilla cena, m’infilai in uno dei ristorantini che si affacciavano sul sinuoso corso principale del paese.
Aleksandrovac, capoluogo del distretto di Zupa, così come tutta la zona circostante, è famosa per i suoi vini e ne provai subito l’ottima qualità quando il proprietario del locale mi offrì subito un buon bicchiere di rosso. Mi raccontò nel suo inglese zoppicante che il paese, per tutto l’anno fin troppo tranquillo, si animava improvvisamente nel periodo della vendemmia, quando venivano addirittura organizzate delle feste paesane per intrattenere i numerosi ospiti che accorrevano a prestare la loro opera per la raccolta dell’uva.
E mi narrò di una vecchia leggenda, secondo la quale il principe Lazar Hreblijanovic, prima di partire per la battaglia di Kosovo Polje, ricevette l’eucaristia con il vino prodotto ad Aleksandrovac. Avevo intessuto il mio sapere di altre storie e leggende. In fondo son proprio le leggende che creano la storia.
L’indomani mattina, dopo un’abbondante colazione con fette di pane spennellate di marmellata, partii alla volta di Studenica.
Risalii i tornanti che avevo disceso il giorno precedente e mi immessi sulla strada che intersecava la valle dell’Ibar, in direzione di Usce, piccolo villaggio nei cui pressi sorgeva il complesso monumentale di Studenica.
Mi trovavo adesso nella Raska, uno degli stati medievali da cui ebbe origine il primo nucleo storico della vecchia Serbia. La strada, dopo alcuni chilometri riprese a salire, e mi trovai immerso in fitti banchi di nebbia che non facevano altro che rendere ancora più magica l’atmosfera. Le spirali di foschia sbattevano leggere contro i vetri dell’auto e gonfiavano l’aria d’umidità.
Tutt’attorno a me nient’altro che il silenzio, amplificato dalle particelle in sospensione. Provai ad immaginare cavalli e cavalieri che sbucassero dal nulla. Il tempo, un’altra volta ancora, aveva perso il suo significato.
Avanzavo lentamente, sforzandomi di seguire i bordi della strada. Non incrociavo spesso altre automobili ma solo diversi carretti tirati dai cavalli che procedevano a passo d’animale.
Poi il sogno svanì, nello stesso istante in cui sbucai fuori dall’ovatta che la nebbia aveva creato. Dopo l’apnea ricominciavo ad annusare l’aria.
Il cammino proseguì per qualche altro chilometro finchè la strada non trovò respiro in un ampio spiazzale. Ma soprattutto sopra di me era tornato a splendere il sole. La giornata adesso si mostrava in tutta la sua serenità.
Scesi dall’auto. Ne sentivo proprio il bisogno. Con passo tranquillo mi avviai verso le mura del monastero che, seminascoste dalla vegetazione, avevano difficoltà ad offrire ai miei occhi il loro percorso circolare. Anzi, vista la leggera elevazione rispetto al piano, offrivano della loro presenza solo impercettibili segnali.
Iniziai a salire i lunghi gradini di pietra levigata, infestati dall’erba, e man mano che mi avvicinavo vedevo apparire le mura nella loro forma definitiva. Arrivai all’ingresso. Le mura in effetti erano relativamente basse, ma il loro profilo si addolciva man mano che esse giravano attorno alla loro stessa circonferenza.
La prima cosa che mi colpì, una volta entrato, fu la luminosità dell’intero complesso.
Tre chiese, una centrale alta e possente e due più piccole che le stavano attorno come satelliti.
Le cupole rosse spiccavano dai tetti chiari, grigi come fumo di nuvole, mentre le pareti esterne mostravano il colore della stessa pietra con la quale erano state edificate molti secoli prima.
Presi a gironzolare attorno agli edifici, seguendo il selciato del sentiero che, sparendo e riapparendo tra i ciuffi d’erba, sembrava dividere in settori i vari angoli della spianata verde.
La chiesa centrale, la chiesa della Vergine, con i suoi archi d’ingresso intarsiati di bassorilievi in marmo, era quella dove riposavano le spoglie mortali di Sv.Simeon, capostipite della dinastia dei Nemanja e padre di Sv.Sava, fondatore della chiesa autocefala serba. Il nome di battesimo di Sv.Simeon era appunto Stefan Nemanja, ed era stato colui che aveva fatto edificare, come sua offerta a Dio, il monastero di Studenica. E che aveva scelto come sua ultima dimora. Una scelta caduta proprio su un luogo che a me in quei momenti appariva come un vero paradiso sulla terra.
La chiesa dominava quel sito, la cui superficie mi sembrò ben più estesa di quelli che avevo precedentemente visitato. Mi sorprese la bellezza degli affreschi e il loro stato di conservazione che mi permise di notare anche alcune iscrizioni in serbo antico che andavano ad aggiungersi a quelle tradizionali in greco.
Le due chiese più piccole mi mostrarono altre sorprese.
La più grande delle due, la chiesa Reale, una vera e propria galleria di ritratti, mi consentì di ammirare i volti di Sv.Simeon e di suo figlio Sv.Sava, e quelli del re Milutin e della di lui consorte Simonida. Avevo letto di quei personaggi tra i miei libri di storia serba, ma finalmente potevo loro dare un volto vero. Un volto ammirato con i miei stessi occhi.
La chiesetta di Sv.Nikola mi mostrò invece solo affreschi disgregati dal tempo e difficilmente distinguibili se non con una buona illuminazione.
Prima di abbandonare quel luogo mistico, lasciai spaziare il mio sguardo lungo le colline ed i boschi che circondavano il complesso di Studenica. L’effetto tridimensionale che ne ricavai mi diede la sensazione che il monastero e la sua cinta muraria restassero sbalzati dal resto, mentre la luce proiettava le verdi colline come uno sfondo in profondità.
Lasciai Studenica a malincuore ma con l’anima piena di gioiosa serenità. Avevo deciso, tra un pensiero e l’altro, di arrivare a Kragujevac prima di sera, senza però rinunciare ad una degna visita al monastero di Zica, sede originaria del patriarcato serbo-ortodosso.
E così fui di nuovo sulla strada.
Iniziai a costeggiare il corso del fiume Ibar, lungo un cammino stretto tra le sue gole ed enormi batoliti di roccia. Facendo occhio a non perdere la destra ammiravo le sue acque fangose scivolare tra detriti e rami spezzati, ed insinuarsi come serpenti tra la bassa vegetazione.
Poi, proprio su un’ansa del fiume, ecco innalzarsi la collina con le rovine della fortezza di Maglic, edificata circa ottocento anni prima e utilizzata per dominare la vallata.
Mi fermai ad una piazzola di sosta. Da quel punto non era possibile raggiungerla che con lo sguardo. Ma il fascino, l’ancestrale e guerriero fascino che emanava ancora, arrivava fino a me da quelle mura diroccate.
Ripresi la strada, e stavolta arrivai senza altre soste fino a Zica.
Com’era diverso il monastero rosso di Zica da tutti quelli che avevo sin lì visitato. Colorato in rosso in memoria dei martiri della fede, splendeva come un rubino incastonato in un diadema di smeraldi.
C’era molta gente che entrava e usciva, ed il posto non era isolato come gli altri. Sapeva più di chiesa che di fortezza. Ma il suo splendore era dettato proprio dal colore delle mura dell’edificio centrale, un rosso mattone pastellato così denso e fresco che a guardarlo ti dava l’impressione che se gli avessi passato un dito sopra te lo avrebbe macchiato. La cupola squadrata, orlata di bianco così come i bordi e le grate delle finestre, era contrapposta al campanile. Agli angoli della chiesa sorgevano pini maestosi e piccoli abeti, che sembravano tracciarne e stabilirne la posizione ed il perimetro, come i punti che un architetto traccia sul foglio millimetrato prima d’iniziare un disegno. Il contrasto tra i due colori dominanti, il rosso dell’edificio ed il verde degli alberi, creava un colpo d’occhio pieno d’effetto.
La storia serba anche qui aveva scritto pagine importanti. Re Stefan Nemanja in questa chiesa era stato incoronato, mentre un’altra leggenda raccontava che per ogni nuovo sovrano della dinastia era stata aperta una nuova porta.
Mi avviai soddisfatto verso la mia piccola grande auto, compagna di strada e di polvere, e ripresi il cammino. In un paio d’ore contavo di arrivare a Kragujevac, dove il giorno seguente mi sarei recato a visitare l’immenso parco Sumarice col doloroso memoriale d’ottobre.
Ma questa è un’altra storia.
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Umberto Li Gioi
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