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Arrivammo a Decani il 28 di agosto, in una mattina soleggiata e calda così come lo erano state tutte quelle che ci avevano accolto nei nostri giorni in Kosovo.
Alloggiammo a Prizren, in un piccolo e comodo albergo consigliatoci da chi aveva già affrontato questo tipo di viaggio. Da lì, ogni mattina, dopo una tranquilla colazione, ci spostavamo in autobus verso le mete stabilite.
Decani ci spalancò le sue porte tra memoriali d’eccidi glorificati dalla bandiera rossa con l’aquila bicipite e lapidi incise con i nomi dei combattenti caduti nella guerra “di liberazione” combattuta alla fine del secolo.
E statue snelle di guerriglieri immortalati in posizioni bellicose.
L’animata cittadina di Decani girava tutta attorno ad aiuole e rotonde, con tanta gente seduta fuori dai bar a bere birra Peja o a raccontarsi chiacchiere.
Chiedemmo all’autista di un furgoncino posteggiato ai bordi della strada di condurci al monastero serbo. Per cinque euro accettò senza batter ciglio, avvertendoci però che ci avrebbe lasciato al primo posto di blocco sulla salita che di lì a poco avremmo affrontato. In effetti si trattava solamente un paio di chilometri.
Ci infilammo in un’angusta via che s’intrufolava a sua volta tra alberi che sembravano stringerla nel loro ombroso e rinfrescante abbraccio.
Poi la strada si allargò, divenendo sconnessa, e gli alberi lasciarono spazio alla vista mozzafiato sulle valli del fiume Bistrica, e allo spettacolo delle montagne circostanti che si stendevano a perdita d’occhio davanti a noi. Da una parte il precipizio, dall’altra mura di roccia.
Il furgoncino avanzava lentamente, senza oltrepassare la soglia dei 40 km/h, mentre comparivano sempre più frequenti le segnalazioni di rallentare indicanti l’approssimarsi del primo filtro di controllo che i soldati dell’esercito italiano mantenevano con pazienza ed attenzione.
Enormi blocchi di cemento, seminati a scacchiera lungo la strada, creavano una gincana che le auto dovevano necessariamente affrontare a bassissima velocità.
L’autista fermò la sua marcia, e ai primi soldati che si avvicinarono porse i documenti indicando a gesti la nostra presenza. Quindi scendemmo, e gli stessi soldati chiesero anche a noi di tirar fuori i documenti. Lo fecero in inglese, e quando gli dicemmo di essere italiani, allentarono subito la tensione con un istintivo “ e che ci siete venuti a fare qui?”.
Tennero comunque i documenti e ci accompagnarono al posto di guardia, una garitta di legno con i vetri blindati, scheggiati da colpi che potevano essere di pietre scagliate da lontano.
Avevano l’obbligo di registrare chiunque entrasse nel monastero, ma furono molto cordiali seppur nel delicato espletamento della propria attività.
Ce li restituirono in pochi minuti, chiamandoci per nome, e ci diedero il loro benvenuto al monastero serbo-ortodosso di Visoki Decani (Decani alto).
L’atmosfera rilassata che ci accolse contrastava con tutto il mondo che girava attorno a quella splendida opera d’arte. Potrò sembrare ripetitivo ma varcare la porta d’ingresso di questi paradisi vuol dire varcare la soglia di un’altra dimensione.
Lì dentro la guerra, i contrasti intestini e tutte le altre storie sembravano lontane migliaia di miglia.
La costruzione principale del complesso diffondeva la luce del sole, espandendola con la sua pietra chiara e i suoi marmi bianchi al contrasto col verde brillante dell’erba appena tagliata.
Era un giorno di festa.
Ce ne accorgemmo dalla quantità di gente che affollava il prato e sostava sotto gli alberi, intenta ad affettare il pane e a mangiare tranquillamente.
Bambini giocavano dando calci ad un pallone, mentre gruppetti di ragazze vestite per l’occasione passeggiavano sotto braccio chiacchierando e confessandosi a vicenda i segreti delle prime passioni.
Alcune persone avevano addirittura imbandito una piccola tavola con una serie di vivande da consumare sul posto. Tutto aveva l’aria di un’allegra scampagnata alla quale partecipavano un centinaio d’invitati.
E in effetti era così.
Qualcuno mi spiegò che il 28 agosto, secondo il vecchio calendario giuliano, ancora ufficialmente riconosciuto dal patriarcato serbo-ortodosso, non era altro che il nostro 15 agosto, e quindi quel giorno cadeva proprio la festa dell’Assunzione della Vergine.
Giornata dedicata naturalmente, oltre che ai sacri riti, anche a piacevoli ore da trascorrere all’aperto e in compagnia.
E quell’atmosfera allietava l’austero luogo incastonato tra boschi sperduti.
Entrammo nella chiesa per visitare gli splendidi affreschi, tra i quali quello raffigurante l’albero genealogico della dinastia Nemanja, situato sulla parete orientale del nartece. Un vero e proprio arazzo dipinto sul muro, che sembrava averlo assorbito per farne parte di sè.
Ci accodammo ad un gruppo di nostri ufficiali dell’esercito per ascoltare le descrizioni artistiche sulle opere d’arte che un gigantesco frate andava sciorinando con il suo accento flemmatico, parlando comunque un ottimo italiano.
Sosteneva con dignità, senza riferimento alcuno nelle parole, la propria vita di “assediato”. L’anomala situazione dei monasteri serbi in Kosovo e Metohija sembrava trasparire dal suo modo di illustrare la storia dei suoi predecessori a persone che erano da considerare, allo stesso tempo, sia difensori che occupanti. E, contemporaneamente, trapelava tutta la sua gratitudine verso quegli “stranieri”che li proteggevano, mentre questi lo stavano ad ascoltare ammirati di tanta saggezza.
E così ci parlò della favolosa iconostasi che avevamo davanti ai nostri occhi stupiti, che ci narrò essere l’unica originale appartenente al medioevo serbo. Vicino ad essa la tomba del fondatore del monastero, re Stefan Uros III “Decanski”, che il figlio Stefan Uros IV “Dusan”, l’imperatore sotto il quale la Serbia aveva raggiunto il suo massimo splendore nell’epoca, aveva fatto seppellire secondo la sua volontà, forse dopo averne addirittura procurato la sua morte.
Ci disse che la superficie affrescata della chiesa era da considerarsi la più grande superficie con affreschi sopravvissuti al tempo ed alla storia. In effetti, nonostante le dimensioni, bastava guardarsi attorno per perdersi tra migliaia di disegni e decine di scene complete. Non mancava chiaramente la figura di Decanski che, come fondatore, offriva il suo monastero a Dio, reggendolo tra le braccia.
Poi ci salutò, scusandosi di doverci lasciare poichè lo aspettavano due ufficiali polacchi, suoi vecchi amici.
Uscimmo.
La luce del sole abbagliò nuovamente i nostri sguardi.
Comprai una piccola croce di legno che da allora porto sempre con me, legata al collo.
Ridiscendemmo a piedi quella salita che ci aveva portato fin là, dopo aver augurato buon lavoro ai nostri soldati.
Quella sera, quando ancora il sole era lontano dall’orizzonte, sulla strada polverosa verso Prizren, il nostro autobus ne sorpassò un altro che procedeva lentamente, scortato da alcuni veicoli militari dell’esercito italiano.
Capimmo.
Capimmo che trasportava la gente serba che quella mattina aveva trascorso la giornata di ferragosto, la festa dell’Assunzione della Vergine, al monastero di Decani.
Un velo di tristezza ci riportò a quella realtà che la leggenda nella quale avevamo vissuto per poche ore aveva dissipato.
Le prime due foto ci sono state regalate da Alberto samopravo.net
Le altre foto arrivano dal compagno di escursione di Umberto Li Gioi
Non vi scordate del bellissimo racconto di Alf !
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