La centralità che riveste il mantenere una netta separazione tra la Russia e l’Europa è indubbiamente alla base dell’immutato interesse con cui gli statunitensi hanno continuato a guardare alla regione balcanica negli anni successivi, sfruttando la crisi del Kosovo come pretesto per procedere al definitivo smantellamento di ciò che rimaneva della Jugoslavia. Quel Kosovo che, dopo esser stato liberato dalla “oppressione serba” grazie all’intervento militare della Nato del 1999, si è progressivamente trasformato, al pari della disastrata Bosnia-Erzegovina, in una sorta di feudo islamizzato dell’Alleanza Atlantica (ospita la più grande base Usa in Europa, Camp Bondsteel) guidato politicamente da personaggi che si trovano al centro dei più sporchi traffici internazionali (droga e organi in particolare). Nonostante ospiti Camp Bondsteel, la più grande base militare che gli Stati Uniti hanno in Europa, il Kosovo si è accreditato alla fine del 2015 come il «principale vivaio dello “Stato Islamico” in Europa, nonostante sul suo piccolo territorio siano presenti 5.000 soldati della missione Nato a guida italiana e 1.500 agenti della missione di polizia europea Eulex. Secondo i dati del Ministero degli Interni di Pristina, sono almeno 300 i kosovari che sono andati in Siria a combattere con il Califfato e che fanno regolarmente avanti e indietro via Turchia e Macedonia. Questo dato fa del Kosovo, che ha solo 1,8 milioni di abitanti, il principale serbatoio europeo pro-capite di foreign fighter dello “Stato Islamico” e una rampa di lancio per future azioni terroristiche in Europa».
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