La prima mossa varata in questo senso dall’amministrazione Reagan fu quella di emanare due direttive per la sicurezza nazionale che inquadravano come obiettivo strategico l’integrazione della Federazione Jugoslava nella Comunità Europea e l’apertura del Paese all’economia capitalista, indicando i metodi operativi attraverso cui promuovere questa “transizione”. Nel 1989 il presidente George Bush sr., succeduto l’anno prima a Reagan, convocò il primo ministro jugoslavo Ante Marković, per costringerlo a smantellare l’assetto politico ed economico vigente in favore di un sistema democratico fondato sull’economia di mercato, pena l’estromissione della Jugoslavia dal circuito finanziario della Banca Mondiale e del Fmi. Una volta ottenuto l’assenso di Belgrado, il Fmi erogò un prestito necessario a finanziare la conversione economica della Jugoslavia, da attuare mediante l’implementazione di un rigido programma di austerità, comprensivo di una drastica contrazione dei salari ai lavoratori e dei sussidi alle industrie, di un poderoso taglio dei dipendenti pubblici, della privatizzazione delle aziende statali e della svalutazione della moneta. Nell’arco del primo semestre del 1990 si intravidero i primi risultati della shock therapy, con un aumento esorbitante dell’inflazione e un crollo dei salari pari al 41%. Nei nove mesi che vanno dal gennaio al settembre 1990, la ricetta applicata dal Fmi fece sì che ben 889 aziende venissero sottoposte a procedure fallimentari e oltre 500.000 lavoratori perdessero la propria occupazione. Con la Banca Centrale jugoslava commissariata dal Fmi, lo Stato fu inoltre privato della facoltà finanziare i programmi economici e d’intervento sociale. Le entrate fiscali che sarebbero dovute essere trasferite alle varie repubbliche e province autonome furono invece impiegate per onorare il debito estero precedentemente contratto, come imposto dalla Banca Mondiale. Come scrive in proposito il professor Michel Chossudovsky, «con un solo colpo i riformatori avevano preparato il crollo finale della struttura fiscale federale della Jugoslavia e ferito mortalmente le sue istituzioni politiche federali. Tagliando le arterie finanziarie tra Belgrado e le repubbliche, le riforme alimentarono tendenze secessioniste basate sia su fattori economici sia su divisioni etniche, creando una situazione di “secessione de facto” delle repubbliche».
venerdì 25 giugno 2021
QUANTO E' SEMPLICISSIMO DISTRUGGERE UNO STATO
La Serbia si oppose frontalmente al piano di austerità targato Fmi e oltre 600.000 lavoratori serbi scioperarono contro il governo federale per protestare contro la riduzione dei salari. Tanto il leader serbo Slobodan Milošević quanto quello croato Franjo Tuđman si unirono ai lavoratori serbi per opporsi ai tentativi di Marković volti ad imporre le riforme raccomandate dal Fondo Monetario Internazionale. A riversare ulteriore benzina sul focolaio jugoslavo, riattizzato ad arte dalla “terapia d’urto” elaborata da Banca Mondiale e Fmi, intervenne direttamente il Congresso, che il 5 novembre 1990 approvò una legge proposta dal senatore Bob Dole, la quale prevedeva la sospensione degli aiuti economici alla Jugoslavia e vincolava la riattivazione del flusso dei finanziamenti all’organizzazione di elezioni multipartitiche da tenere separatamente in ogni repubblica membra della federazione. La normativa contemplava anche, tra le altre cose, di sostenere economicamente i movimenti secessionisti che miravano alla separazione del Paese su basi etniche. Come era ampiamente prevedibile, le elezioni videro le frange secessioniste sovrastare i comunisti in Croazia, Bosnia e Slovenia. «Come il collasso economico stimolò la deriva verso la separazione – scrive ancora Chossudovsky – a sua volta la separazione esacerbò la crisi economica. La cooperazione tra le repubbliche di fatto cessò, e con le repubbliche che si azzannavano a vicenda, l’economia e la nazione stessa entrarono in una spirale viziosa che puntava irrimediabilmente verso il basso». Il pericoloso “avvitamento” descritto da Chossudovsky era inesorabilmente destinato a sfociare in un’escalation di violenza in nome del diritto di autodeterminazione dei popoli, consacrato nel 1918 dal presidente Usa Woodrow Wilson e tornato in voga in seguito alla disgregazione dell’Unione Sovietica. Il primo atto della tragedia jugoslava coincise con l’adozione, nel luglio del 1990, di una nuova Costituzione da parte del Parlamento locale del Kosovo, che conferiva alla regione il rango di Repubblica e riconosceva alla minoranza albanese i diritti di una nazione autonoma. L’atto venne percepito dai nazionalisti serbi come un affronto, visto che l’anno precedente, in occasione del seicentesimo anniversario della battaglia di Kosovo Polje (combattuta nel 1389 tra serbi e ottomani e risultata decisiva per la formazione della coscienza collettiva del popolo serbo), il presidente Miloševič aveva pronunciato un discorso in cui si ribadiva l’inviolabilità dei confini e l’integrità statale, nazionale e spirituale jugoslava di fronte a circa un milione di persone che erano convenute alla “Piana dei Merli” (questo è il significato di Kosovo Polje) per ascoltarlo. Le autorità di Belgrado decisero quindi di sciogliere il Parlamento kosovaro per assumere direttamente le redini della regione, innescando così quel pericoloso meccanismo disgregativo che si intendeva prevenire.
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