giovedì 24 giugno 2021

Guerra jugoslava, cronache di una catastrofe preparata a tavolino

 




Di Giacomo Gabellini

Ex Jugoslavia: una storia recente ma poco conosciuta.
Un popolo usato come laboratorio di geopolitica, il test pilota delle moderne metodiche di aggressione.
Le recenti condanne decretate del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja contro il generale serbo-bosniaco Ratko Mladic e il generale croato Slobodan Praljak (suicidatosi al momento della sentenza ingurgitando una dose di veleno) hanno riportato al centro dell’attenzione il conflitto jugoslavo protrattosi per la prima metà degli anni ’90. Si tratta guerra assai poco compresa dagli europei, su cui vale la pena di accendere i riflettori in maniera meno interessata e politicamente corretta di quanto si sia fatto finora.
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La Serbia si oppose frontalmente al piano di austerità targato Fmi e oltre 600.000 lavoratori serbi scioperarono contro il governo federale per protestare contro la riduzione dei salari. Tanto il leader serbo Slobodan Milošević quanto quello croato Franjo Tuđman si unirono ai lavoratori serbi per opporsi ai tentativi di Marković volti ad imporre le riforme raccomandate dal Fondo Monetario Internazionale. A riversare ulteriore benzina sul focolaio jugoslavo, riattizzato ad arte dalla “terapia d’urto” elaborata da Banca Mondiale e Fmi, intervenne direttamente il Congresso, che il 5 novembre 1990 approvò una legge proposta dal senatore Bob Dole, la quale prevedeva la sospensione degli aiuti economici alla Jugoslavia e vincolava la riattivazione del flusso dei finanziamenti all’organizzazione di elezioni multipartitiche da tenere separatamente in ogni repubblica membra della federazione. La normativa contemplava anche, tra le altre cose, di sostenere economicamente i movimenti secessionisti che miravano alla separazione del Paese su basi etniche.
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Il 22 dicembre 1990, il parlamento croato proclamò unilateralmente l’indipendenza e promulgò una nuova Costituzione tutta incentrata sul principio fondamentale, prego di richiami alla celeberrima Dottrina Monroe, della “Croazia ai croati”. Nell’ottobre del 1991 il governo guidato dal presidente Franjo Tuđman decretò l’espulsione di circa 30.000 serbi dalla Slavonia e dalla Krajina, mentre la Guardia Nazionale Croata occupava Vukovar. L’esercito federale cinse d’assedio la città prima di procedere all’attacco, infliggendo pesanti perdite agli assediati che vennero costretti alla resa. Nel frattempo, la Macedonia otteneva l’indipendenza (17 settembre 1991) grazie ad un accordo stipulato tra il primo ministro Kiro Gligorov e il presidente della Federazione Jugoslava Slobodan Milošević, mentre la Slovenia decise di ispirarsi all’esperienza croata per proclamare a sua volta (25 giugno 1991), l’indipendenza da Belgrado sulla medesima base etnica. A differenza di quanto accaduto in Croazia, il piccolo esercito sloveno riuscì a tener brillantemente testa alle milizie federali, provocando pesanti perdite.
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Nell’immediato, la conseguenza fu i serbi di Croazia proclamarono unilateralmente la nascita della Repubblica Serba di Krajina (24 dicembre) richiamandosi al medesimo diritto di autodeterminazione dei popoli precedentemente accolto dalla Germania nei confronti dei croati. La situazione di caos venutasi a creare (anche) a causa dell’atteggiamento tedesco andò rapidamente aggravandosi per effetto dell’intervento del Vaticano, che decise di legittimare le rivendicazioni indipendentiste avanzate dalle cattoliche Slovenia e Croazia al duplice scopo di assestare un colpo micidiale all’odiato regime di ispirazione comunista e porre le basi per il ritorno alla Chiesa dei beni ecclesiastici che erano stati nazionalizzati dalla Jugoslavia subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il 15 gennaio del 1992, Slovenia e Croazia ottennero il riconoscimento da parte tutti i Paesi firmatari del Trattato di Maastricht.
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Dopo la morte di Tito, Izetbegović ristrutturò l’Sda attuando una serie di purghe interne, servendosi delle moschee come centri di reclutamento per guerriglieri e allacciando rapporti con la formazione mafiosa paramilitare comandata da Jusuf Prazina e con lo psicopatico Mušan Topalović (meglio noto come Caco), nonché con il Vevak (intelligence iraniana), con il Gruppo Islamico Armato (Gia) algerino, con Hezbollah, con l’Arabia Saudita, con la Turchia e con le forze legate ad al-Qaeda beneficiando del “lavoro sporco” svolto da Ong e istituti bancari di copertura. All’interno del proprio manifesto politico, Izetbegović aveva apertamente dichiarato di auspicare «la creazione di una grande federazione islamica dal Marocco all’Indonesia, dall’Africa nera all’Asia centrale», sostenendo che «non ci può essere pace o coesistenza tra la fede dell’Islam e la fede e le istituzioni non islamiche».
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Ispirandosi a ideali del genere e potendo contare sui numerosi alleati internazionali in grado di mettere a sua disposizione guerriglieri e armamenti (i musulmani e i croati disponevano, grazie agli aiuti concessi in primis dagli Stati Uniti, di molte più armi rispetto ai serbi), Izetbegović si erse a guida del Jihad bosniaco e organizzò un referendum per l’indipendenza bosniaca nel febbraio del 1992, malgrado ciò violasse palesemente la Costituzione nazionale in quanto proclamato in assenza di qualsiasi consultazione preliminare con tutte le componenti etniche. Al referendum parteciparono soltanto le componenti croate e musulmane, che decretarono la secessione. I serbi della Bosnia-Erzegovina emularono tale atteggiamento in riferimento alla Republika Srpska, conformemente alle direttive politiche proclamate dal nazionalista Radovan Karadžić. L’acuirsi della tensione spinse la Comunità Europea ad indire, il 18 marzo del 1992, la Conferenza di Lisbona, nel corso della quale le parti in causa sottoscrissero il piano Cutileiro, che prevedeva di cantonalizzare la Bosnia-Erzegovina.
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Il 2 luglio del 1992 i croato-bosniaci proclamarono la Hrvatska Republika Herceg-Bosna disseppellendo l’antico vessillo della Šahovnica (scacchiera) Ustaša in memoria del filo-nazista Ante Pavelić. Verso la fine del 1992, gli Stati Uniti presero a sostenere finanziariamente e politicamente il candidato Milan Panić (facoltoso uomo d’affari statunitense d’origini serbe) contro Slobodan Milošević, ma l’inaspettata riconferma elettorale di quest’ultimo scompaginò i loro piani. Mentre l’inflazione jugoslava, dovuta in larghissima parte all’embargo, cresceva alle stelle, il fronte croato-musulmano del Consiglio di Difesa Croato si spaccò in due fazioni interessate entrambe ad assumere il controllo di Mostar. Nell’arco del biennio 1992-1994 i combattimenti provocarono vittime in entrambi gli schieramenti finché i croati non ottennero l’appoggio diretto di Tuđman , a beneficio del quale iniziarono ad affluire ulteriori rifornimenti bellici dalla Germania
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Una volta conquistata la soverchiante superiorità militare, le milizie croate si abbandonarono a numerose stragi a danno della popolazione musulmana, senza che né il loro comandante Milivoj Petković né il presidente della Hrvatska Republika Herceg-Bosna Mate Boban né il primo ministro croato Franjo Tuđman venissero successivamente chiamati a rispondere degli eccidi. La cosa non deve stupire, dal momento che la giustizia a geometria variabile rappresenta la funzione essenziale del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, vero e proprio strumento giudiziario per legittimare la politica estera degli Usa (al quale non aderiscono, pur avendolo finanziato e appoggiato politicamente). Al riguardo, lo studioso Fabio Falchi tiene a porre particolare enfasi sulle «assoluzioni del noto “thug” bosgnacco Naser Orić e, il 16 novembre 2012, di due ex generali croati, Ante Gotovina e Mladen Markac, responsabili dell’uccisione di 324 civili e dell’espulsione di oltre 90.000 persone, azioni che secondo i giudici dell’Aia furono “legittimi atti di guerra”. Queste sentenze hanno suscitato scandalo, ma in realtà erano “politicamente corrette”, anche perché la Croazia sarebbe dovuta entrare nella Ue il 1° luglio del 2013. Riguardo al Tribunale penale internazionale dell’Aia per la ex Iugoslavia sono da ricordare le assoluzioni del noto “thug” bosgnacco Naser Orić e, il 16 novembre 2012, di due ex generali croati, Ante Gotovina e Mladen Markač, responsabili dell’uccisione di 324 civili e dell’espulsione di oltre 90.000 persone, azioni che secondo i giudici dell’Aja furono “legittimi atti di guerra”. Queste sentenze hanno suscitato scandalo, ma in realtà erano “politicamente corrette”, anche perché la Croazia sarebbe dovuta entrare nell’Unione Europea il 1° luglio del 2013».
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La storiografia ufficiale afferma che a Srebrenica le truppe comandate da Mladic si siano abbandonate a un efferato massacro di 8.000 civili, malgrado il conto delle presunte vittime scaturisse dalla mera sommatoria tra i 3.000 prigionieri catturati dalle forze serbo-bosniache e i 5.000 dispersi – gran parte dei quali vennero identificati in seguito – indicati in un rapporto stilato dalla Croce Rossa dietro suggerimento di Izetbegović , che si rifiutò sia di fornire l’elenco dei nominativi scomparsi, sia di organizzare un apposito censimento. «Se le autorità musulmane – osserva il presidente della Fondazione per la Ricerca sul Genocidio Milan Bulajic – avessero voluto veramente conoscere il numero delle vittime, avrebbero potuto organizzare nel 1996 un censimento della popolazione e compararlo con quello del 1991. Ma questo non è stato fatto perché, con quel censimento, il numero degli uccisi sarebbe emerso con precisione. Non è stato fatto nemmeno nel 2001, sebbene la legge stabilisca l’obbligatorietà di realizzare un censimento ogni dieci anni, perché sarebbe venuto fuori quanti serbi erano stati uccisi a Sarajevo e a Srebrenica. La Bosnia-Erzegovina è così rimasto il solo Paese nella regione a non aver provveduto a un censimento della popolazione […]. Forse non c’era l’intenzione di accertare una verità che avrebbe rivelato che un genocidio è stato perpetrato in 192 villaggi serbi della regione di Srebrenica e che il numero di serbi scomparsi o uccisi a Sarajevo era maggiore di quello dei musulmani scomparsi o uccisi a Srebrenica. Ecco perché affermo che a Srebrenica non c’è stato genocidio. Ci sono stati dei crimini di guerra da ambedue le parti». Numerosi cittadini serbi residenti nei dintorni della cittadina bosniaca denunciarono inoltre – senza ottenere la minima attenzione da parte delle autorità competenti – violenze commesse contro le loro famiglie dai guerriglieri musulmani, gettando un’ombra sulla identità dei cadaveri mostrati dai bosgnacchi. La Commissione Internazionale per le Persone Scomparse (Icmp) fondata per volontà diretta del presidente Clinton, sostenne di aver identificato, sottoponendoli alla prova del Dna, oltre 6.000 cadaveri uccisi a Srebrenica dalle forze di Mladic, ma quando il legale dell’imputato Radovan Karadžić richiese la trasmissione della documentazione relativa alle presunte identificazioni, l’Icmp oppose un secco rifiuto adducendo ragioni legate alla privacy dei (presunti) parenti delle vittime. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo Henry Wieland affermò che i suoi uomini non avevano raccolto alcuna prova in grado di accertare le presunte esecuzioni di massa a danno dei musulmani di cui erano accusati i serbi.

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