C’è un argomento di cui si parla troppo senza parlarne mai davvero. E’ quello dei crimini di guerra perpetrati durante le guerre jugoslave (1991-1999). Si parla troppo, cioè, di alcuni eventi criminali finendo per farne simboli e come tali rendendoli oggetti “sacri”, intoccabili, favorendo così le strumentalizzazioni politiche. Poiché su quei fatti è in corso, ancora oggi, una guerra. La guerra dei parolai, dei politicanti in cerca di consensi, ma anche la guerra delle memorie che cerca di dividere in assolutamente carnefici e assolutamente vittime le parti allora in causa.
L’altra faccia di Srebrenica
C’è, nel sentire comune e nella divulgazione storica spicciola, una divisione tra buoni e cattivi. I cattivi hanno quasi sempre il volto di Radko Mladic, il comandante serbo protagonista del massacro di Srebrenica, e i buoni sono generalmente i bosgnacchi, cioè i musulmani aggrediti dalla barbarie serba. Senza in nessun modo voler ridurre la portata criminale dei fatti compiuti, il confine tra buoni e cattivi non è così netto come si vorrebbe. Anche i musulmani, nella loro guerra, si sono macchiati di crimini atroci ed è tempo di penetrare la coltre di silenzio che spesso li avvolge.
Lungo la valle della Drina, i crimini di Naser Orić
La città di Srebrenica, subito occupata dai serbi nel febbraio del 1992, venne riconquistata dalle truppe musulmane già a giugno. Da quel momento Srebrenica divenne la base per incursioni nel territorio occupato dai serbi. Lo scopo dei bosgnacchi era quello di ricongiungersi con l’enclave musulmana di Zepa, in modo da spezzare il collegamento tra le milizie serbe operanti in Bosnia e la madrepatria, che da Belgrado inviava rifornimenti e uomini. Durante queste incursioni, guidate dal comandante bosgnacco Naser Orić, le truppe musulmane attaccarono villaggi a maggioranza serba, trucidando la popolazione civile e radendo al suolo le abitazioni, spingendo i superstiti alla fuga: erano quelli i metodi della pulizia etnica.
Si contano – da parte serba, ma le cifre sono oggetto di contesa – circa 1300 vittime civili serbe uccise su ordine di Naser Orić. Nel tempo il numero delle vittime è salito, secondo le autorità della Republika Srpska, a tremila, mentre per il centro di Ricerca e Documentazione (Research and Documentation Center, RDC) di Sarajevo, in cui lavorano congiuntamente investigatori bosgnacchi, serbi e croati, si tratterebbe di 843 persone. Ma non siamo qui a contare le teste, a misurare la mostruosità dell’eccidio facendo la conta delle vittime: quello che è importante è che furono vittime civili, uccise non accidentalmente ma deliberatamente, allo scopo di liberare un territorio che si intendeva controllare. Quello che conta è l’intento di queste operazioni, poiché l’eccidio era finalizzato a spaventare e allontanare la popolazione serba dalla regione: insomma, la pulizia etnica. Che si tratti di ottocento, quanti i morti per mano bosgnacca, o degli ottomila di Srebrenica, non fa differenza: la morale non è una questione di matematica.
Il 7 gennaio 1993, a seguito del fallimento dei colloqui di pace di Ginevra, i bosgnacchi di Orić ripresero l’offensiva nella valle della Drina attaccando il villaggio di Kravica e massacrando 40 civili serbi. Per questi crimini Naser Orić verrà condannato dal Tribunale penale dell’Aja a due anni di reclusione. Troppo poco secondo il procuratore generale Carla Del Ponte che chiese lo svolgimento di un processo d’appello il quale si concluse però con la completa assoluzione di Orić. Si trattò della prima di molte assoluzioni eccellenti che il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY) avrebbe dichiarato negli anni a venire, alimentando il sospetto che si trattasse di sentenze politicizzate. Sospetto confermato dalla stessa Carla Del Ponte quando dichiarò che le indagini e sentenze erano influenzate dalla comunità internazionale, NATO in primis, che non gradiva si indagasse sugli ex-alleati.
Il massacro di Grabovica
La mattina dell’otto settembre 1993 le truppe bosgnacche dell’ARBiH, guidate da Sefer Halilović, calarono sul villaggio di Grabovica, nell’Erzegovina, popolato in prevalenza da croati. Il villaggio era sotto il controllo bosgnacco già da maggio e non si erano registrate violenze. A cambiare la situazione fu l’arrivo della IX e X Brigata bosgnacca, note per la loro efferatezza. La notte dell’otto settembre vennero uccisi tredici civili estranei al conflitto, almeno queste sono le vittime accertate dall’ICTY anche se si suppone fossero di più. Per questi crimini vennero accusati lo stesso Halilović e altri ufficiali. Halilović fu accusato di non avere fermato il massacro e di avere la responsabilità dell’accaduto essendo l’ufficiale in comando, secondo alcuni le responsabilità di Halilović furono ben maggiori, favorendo se non ordinando il massacro. Tuttavia non fu giudicato colpevole. Vennero invece condannati gli esecutori materiali del massacro, i soldati Nihad Vlahovljak, Sead Karagić e Haris Rajkić.
Il clan dei sarajevesi e la roccia di Kazan
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Topalović è stato riconosciuto responsabile, dalle stesse autorità civili bosgnacche, di avere rapito, brutalizzato e sgozzato civili. In particolare è stato accusato della morte di Vasilj Lavriv e sua moglie Ana, due cittadini sarajevesi portati via dalla propria abitazione su ordine della X brigata di Montagna. Condotti a Bistrik, dove la brigata aveva il comando, sono stati denudati, colpiti a picconate e sgozzati, per essere gettati infine nel Kazan, una fenditura nella roccia dove – a guerra finita – furono ritrovati decine di corpi. “Caco” verrà ucciso, in circostanze mai chiarite, su ordine del governo di Sarajevo il 26 ottobre del 1993.
La resistenza bosgnacca si è giovata anche dell’aiuto di Ismet Bajramović e Ramiz Delalić. Quest’ultimo, in particolare, è stato il comandante della IX brigata di Sarajevo, e fu responsabile dell’omicidio a sangue freddo, e del tutto immotivato, di Nikola Gardović, un giovane serbo ammazzato mentre stava celebrando il proprio matrimonio di fronte all’antica chiesa ortodossa di Sarajevo.
Matteo Zola
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