"Pronto signor Morrison, sono Craig Tiley. Volevo comunicarle che il tennista Novak Djokovic ha fatto richiesta di esenzione medica per poter partecipare al nostro Australian Open senza però essere vaccinato. La motivazione è una recente positività al Covid, da noi ritenuto motivo valido fin dall'inizio in collaborazione con lo stato di Victoria. Qual'è la vostra posizione?"
" Mr. Tiley, non mi faccia perdere tempo. Sarà un motivo valido per voi forse, di certo non per noi. Atleti non vaccinati non ne ammettiamo, punto, si rende conto delle problematiche che causerebbe? Novak Djokovic resterà a casa o in qualsiasi paese che permette ai non vaccinati di entrare. Lei perderà dei soldi, ma io ci perderei la faccia. Buona serata".
Quello che leggete è un simpatico dialogo immaginario tra Craig Tiley, direttore di Tennis Australia, e Scott Morrison, primo ministro australiano. Un dialogo che dovrebbe essere naturale tra figure rilevanti nell'organizzazione di un evento internazionale, che avrebbe richiesto meno di cinque minuti e che avrebbe evitato tutto questo stucchevole teatro.
La vicenda Djokovic, alla fine, termina con l'esito giusto raggiunto tramite il procedimento più sbagliato possibile. Esito giusto perché è chiaro che l'Australia avesse deciso la linea da tenere entro i propri confini già da tempo: una linea dura, a tratti controversa, ma legittima e fino a qualche settimana fa, anche condivisibile. Procedimento sbagliato perché in questi giorni è successo di tutto: esenzioni concesse, visti cancellati, inchieste parziali, applicazione arbitraria di norme, detenzioni forzate, abuso di potere, permessi prima concessi e poi invalidati.
Per chi ha seguito il processo (prima del quale il ministro per l'immigrazione Alex Hawke, colui che ha impugnato il suo potere speciale di cancellatore di visti, ha beatamente sostenuto che Djokovic avesse un'esenzione valida e non abbia fatto sostanzialmente niente di illecito) è stato davvero divertente constatare come le fantomatiche inchieste, i pareri degli esperti social e tutti i discorsi, in un senso o in un altro, che in questi giorni hanno rimbalzato tra social stessi, giornali e TV, siano stati nulla più che un passatempo. L'arringa dei legali federali, così come poi la decisione presa, si è sviluppata su un solo fondamentale argomento: il pericolo rappresentato dal tennista Novak Djokovic. Non il pericolo sanitario, per tutti chiaramente inesistente, quanto il pericolo socio-politico. Il signor Djokovic avrebbe potuto vaccinarsi se lo avesse voluto, senza affidarsi alla speranza di contrarre il virus, e le tempistiche lo dimostrano. Il signor Djokovic, che lo voglia oppure no, a torto o a ragione, è diventato un simbolo del movimento no-vax e pertanto non possiamo ignorare gli effetti negativi sulla popolazione australiana che la sua partecipazione comporterebbe, tra desiderio di emulazione e proteste da parte loro per ottenere diritti sulle orme del tennista. E no, non sto scherzando, hanno davvero sostenuto questo: hanno sostenuto che siccome è diventata una figura negativa, un idolo no-vax, non poteva rimanere in Australia, pur non avendone mai pubblicamente appoggiato la causa o sposato le posizioni ma avendo semplicemente esercitato il suo diritto a non vaccinarsi. Tutto questo dopo che nelle ore precedenti avevano già confermato che tutte le procedure da lui seguite fossero corrette.
Il processo, insomma, ha incarnato lo spirito di quella che nella mente degli australiani doveva essere la decisione iniziale: non sei vaccinato, non entri in Australia, puoi seguire tutte le procedure che vuoi.
Non c'è stata alcuna falsificazione di documenti, non c'è stata nessuna pericolosità sanitaria, non c'è stato nessun discorso di questo tipo. Il processo di ieri ha riguardato solo ed esclusivamente la questione vaccinale e la pericolosità sociale di Djokovic. E poco importa che sia stato fatto notare che i disordini sono cominciati solo dopo la cancellazione del visto, poi sconfessata da un giudice, e che questo approccio del governo ha inasprito ulteriormente le posizioni dei no-vax. Quel che conta è che la folla ha ricevuto il proprio nemico da demonizzare e contro il quale canalizzare tutte le frustrazioni di un anno intero passato costretti dentro le proprie abitazioni.
Non mi esprimo ulteriormente sull'esito: la gestione della pandemia da parte del governo ha chiarito l'intransigenza verso determinate questioni, ed è solo naturale che, dopo quanto accaduto negli ultimi due anni, l'Australia non conceda il permesso di ingresso a persone non vaccinate, e il sentimento nazionale maggioritario è perfettamente allineato con questa visione dopo tutto ciò che hanno dovuto patire (per mano del governo, non del covid).
Personalmente non sono mai felice quando le ideologie prevalgono: la principale preoccupazione di tutti, in questa pandemia, dovrebbe essere la salute, nient'altro. Non decisioni politiche sull'obbligo vaccinale, né decisioni economiche relative ai tamponi. Vaccinato, tamponato, guarito non dovrebbe contare finché l'unica certezza è quella di non essere positivo e non poter diffondere il contagio (curiosamente, tra le tre possibilità sopra menzionate il vaccino è l'unica che non lo garantisce, e lo dico da vaccinato). Credo che il modo migliore per convivere con questo virus sia questo, quello di vivere come abbiamo sempre fatto tenendo a mente solo e soltanto questioni di salute, nient'altro. Ma non è questo il punto. Djokovic ha perso e non parteciperà agli Australian Open, e attenderemo di sapere ulteriori dettagli come promesso dalle autorità giudiziarie.
Curioso, quasi karmico, come la motivazione principale a favore dell'espulsione sia anche l'unico vero grave errore di Novak Djokovic, ovvero la presenza da positivo consapevole all'intervista del 18 Dicembre. Un episodio che lo stesso Djokovic ha confessato nei giorni precedenti, probabilmente ignaro che un comportamento tenuto nella sua Serbia avrebbe potuto assumere tutta questa rilevanza in Australia. L'errore resta, in ogni caso, e non ci resta che augurarsi che da esso, e da tutta questa situazione, possa imparare qualcosa.
Qualsiasi altro discorso su sue presunte irregolarità, su corruzioni, falsificazioni, pretese di impunità, abuso di privilegi si è dimostrato, per fortuna, irrilevante.
Ha vinto il processo alle intenzioni, il processo del "potrebbe causare problemi", il processo del "meglio se". E questo, sebbene rappresenti la perfetta ciliegina sulla torta di cattiva gestione e assurdità preparata e servita dal governo e da Tennis Australia e, francamente, provochi un minimo di dubbio sull'evidente sbilancio in favore del potere esecutivo in terra australiana, sarebbe stato facilmente evitabile ricorrendo al dialogo di cui sopra. Evidentemente troppo difficile, o forse troppo poco politico.
Ps. Data la beatificazione della figura del ministro Alex Hawke a cui ho assistito negli ultimi giorni, nonostante la sua presa di posizione avrebbe invece dovuto segnalare evidenti squilibri nei poteri statali australiani, ho pensato che sarebbe stato utile condividere con voi questo articolo dell'ANSA su di lui, sia per dare ulteriori elementi per valutare la sua personalità sia per inquadrare a che tipo di ideologia si ascrive questo tipo di politica.
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