Negli ultimi giorni, ho incontrato sedicenti pacifisti che legittimano e plaudono l'invio di armi in Ucraina da parte del nostro paese.
Domando a questi pacifisti se sanno davvero cosa significhi stare in guerra.
Domando loro se hanno mai osservato lo sguardo di un'adolescente che fissa il vuoto tra le macerie, se hanno mai visto scendere le lacrime a un'anziana con la casa distrutta o se, tra edifici abbattuti, hanno mai scorto gli occhi disperati di un cane solo, perduto.
Armare un popolo "purché si uccidano tra loro", mentre noi ce ne stiamo comodi (per ora) al computer o ci ripuliamo la coscienza sventolando bandiere colorate, non servirà a costruire un percorso di pace.
Per anni, in troppi si sono voltati dall'altra parte, mentre l'Ucraina veniva equipaggiata militarmente e il popolo del Donbass lasciato morire.
Dunque, non si può piangere per un popolo e sventolare bandiere, mentre si accetta che il proprio paese lo armi.
Questo non è pacifismo, questa è una pessima recita, questa è ipocrisia.
La soluzione diplomatica del conflitto deve essere l'unica via percorribile.
Ne ho parlato oggi, a Milano, al BookPride.
Ringrazio Greta Privitera del Corriere della Sera per aver presentato il mio reportage e quanti sono intervenuti, mostrando con la propria presenza, la vicinanza al popolo ucraino e al popolo delle regioni del Donbass.
Dopo che Zelensky ha ufficialmente bandito i restanti partiti di sinistra (quello comunista era già stato messo al bando nel 2015), i suoi sceneggiatori gli indicano la mossa successiva: terminare la videoconferenza al vertice NATO di Buxelles col pugno chiuso.
Perché?
Per confondere.
Perché un’immagine è più potente delle parole, qualsiasi sceneggiatore lo sa, e quel pugno ci dice molte cose.
Quel pugno ci dice che il problema dell’ultranazionalismo in Ucraina non esiste. Ci dice che di rifugiati politici in Ucraina non ce ne sono mai stati. Che non vi è mai stato nessun morto tra i dissidenti. Che nessun n4zista di nome Bandera è diventato eroe nazionale. Che nessuna bandiera dei collaborazionisti di H1tler è mai stata sventolata nel 2014, durante una rivoluzione democratica.
E il battaglione Azov? Un’aggregazione in cui si legge Kant, dicono i media. Per questo motivo, forse, il presidente Zelensky ha conferito il titolo di “eroe dell’Ucraina” a Denis Prokopenko, comandante dello stesso battaglione.
Cosa dire, invece, degli altri battaglioni punitivi neon4zisti, regolarmente inseriti nell’esercito ucraino? Il Dnepr, il Donbass, l’Aidar? Nulla, non se ne parla, quindi non c’è niente da dire.
Persino il massacro compiuto dagli estremisti del Settore Destro contro i civili a Odessa: non è stato mostrato, quindi evidentemente non c’è stato.
E otto anni di guerra in Donbass, i profughi, le migliaia di vittime, i disabili?
Spariti, non ci sono prove, forse è partito solo qualche sparo.
I media russi che potevano testimoniare sono stati oscurati in Occidente.
È stato cancellato quasi tutto. Non si può più verificare.
Restano quattro pazzi a gridare che questa è fiction, non è la realtà.
La fiction e il pugno chiuso.
Gli sceneggiatori di Zelensky usano la stessa tecnica utilizzata all’epoca del movimento Otpor (in serbo: “resistenza”), il cui simbolo era appunto un pugno chiuso.
Il movimento, che alle elezioni in Serbia ottenne appena il 2% dei voti, ma che ebbe una sovraesposizione mediatica in Occidente, utilizzava un’insospettabile estetica di sinistra per promuovere una politica di destra.
Nulla di nuovo dunque: si svuota l’oggettività del suo significato e, mistificando il reale, si falsificano deliberatamente i fatti.
Chi è ancora lucido, coglie la differenza che c’è tra fiction e realtà.
Del resto, non erano reali neanche le armi chimiche, pretesto usato per distruggere l’Iraq: la stessa provetta agitata da Colin Powell faceva parte di una fiction. Ormai si sa.
Ma le armi sono state usate nella realtà.
La guerra non è un film, i morti sono veri.
In molti vogliono la pace, in molti dichiarano di volere la fine dell’occupazione russa.
Ma nessuna mediazione è possibile nella fiction, al di là della realtà.
Sara Reginella
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