giovedì 3 agosto 2023

Sarajevo 1993, pace e morte: la drammatica storia di Moreno Locatelli

 




Un libro e un film ricostruiscono il caso dell'uccisione di uno degli attivisti dei Beati costruttori di pace che nel 1993 prese parte ad un'azione dimostrativa sul ponte di Vrbanja. Ne emerge una verità diversa da quella dei canali ufficiali e alcuni aspetti nascosti dell'assedio di Sarajevo 

“C’erano ancora alcune cose molto importanti da raccontare -  ci spiega – già nel primo film era emerso che gli spari provenivano non dalla postazione serba ma da quella di Caco (ndr leggi Zazo). Dopo le prime riprese del 1995, nel 2011 tornai a Sarajevo, parlai con diverse persone ed è uscita una seconda parte della storia. Elementi che rafforzavano l’ipotesi di una trappola organizzata per uccidere uno dei cattolici italiani”. 

L'agguato Non un incidente di guerra, dunque, ma un piano vero e proprio. Un agguato per Bocchi, che chiama in causa i bosniaci musulmani. Alcune cose infatti, rispetto alla versione ufficiale dei fatti, non tornano: “Nelle vicinanze del ponte - racconta Bocchi - in quel momento c’era inspiegabilmente il capo delle guardie del corpo del presidente Aljia Izetbegovic e altri che non fecero nulla per fermare i pacifisti”. Eppure, per avvicinarsi ad una prima linea erano necessari permessi, documenti. Perché i pacifisti diventano un obiettivo politico? 

Caco, Celo uno e Celo due. Le bande criminali Negli anni dell’assedio c’è una guerra nella guerra a Sarajevo. Bande criminali assoldate dal governo anziché difendere la popolazione seminano il terrore con razzie, stupri, rapimenti, barbare uccisioni. A capo ci sono gangster come Caco, Juka, Celo uno e Celo due. In quella che era una città multiculturale e multietnica, manca l’acqua, la luce viene spesso interrotta, scarseggiano i beni di prima necessità, la gente è allo stremo, il rischio di epidemie è altissimo. I prezzi del mercato nero, in cui finiscono anche gli aiuti dell’Onu, sono alle stelle, i civili si nascondono nel timore di rastrellamenti da parte di Caco e dei suoi uomini, che li costringono, in mancanza di un riscatto, a scavare le trincee sulla linea del fronte.   

vGli Izetbegović Nel 1983 Alija Izetbegović fu processato con l’accusa di fondamentalismo per la Dichiarazione islamica, un testo scritto dieci anni prima in cui si leggevano frasi come queste: “Non ci può essere pace o coesistenza fra la fede dell’Islam e la fede e le istituzioni non islamiche”. Finì in prigione insieme a Celo due. Durante l’assedio, per i media occidentali Izetbegovic, presidente della Bosnia, rappresentò il leader moderato, fautore di una Repubblica di “cittadini” al di là delle distinzioni etnico-culturali. “Un pessimo politico – commenta Bocchi - senza alcuna legittimazione popolare, alle elezioni era arrivato secondo,  e soltanto perché il vincitore non aveva accettato la carica si ritrovò presidente”. Il suo potere militare poggiava anche sulle brigate criminali di uomini come Caco, controllate dal figlio Bakir Izetbegovic, ministro ombra dell’Interno. 

 “Alija aveva legami profondi con settori retrivi ed estremisti iraniani e sauditi, persone che in quel periodo giravano in Bosnia, aveva autorizzato la formazione della settima brigata musulmana, fatta da estremisti islamici”.  Nel libro Bocchi riporta una frase del fratello di Caco, Nane Topalović, altro personaggio sanguinario che il regista ha incontrato, rischiando moltissimo. Nane sostiene che Izetbegović avrebbe avuto un certo interesse a mantenere per Sarajevo il ruolo di città martire. “Non lo dice solo lui, era risaputo da tutti i soldati che combattevano sul fronte di guerra. Sono stato in prima linea diverse volte per filmare i soldati. Tutti mi dicevano: appena attacchiamo e conquistiamo 200-300 metri Izetbegović ci fa tornare indietro”. Nel "Ponte di Sarajevo" Bocchi parla anche di un piano strategico, mai attuato, che avrebbe potuto contrastare l’assedio.  Ed è di qualche giorno fa la notizia dell’arresto a Berna di Naser Oric, ex comandante della difesa di Srebrenica, che in un’intervista ha dichiarato di aver ricevuto l’ordine di lasciare la città con i suoi comandanti, per motivi inconfessabili.  “Ci sono ancora alcune cose da scoprire su Izetbegović e sui suoi rapporti sotterranei con Karadžić e gli altri nemici serbi.  C’erano accordi segreti tra le varie fazioni estremiste in guerra – spiega Bocchi - È stata una guerra delle minoranze di estremisti di tutte le etnie contro una maggioranza di persone pacifiche e perbene”.

A confermarlo sarebbe anche la perizia sommaria sul giacchino jeans della vittima. Ci sono poi quegli interrogativi rimasti senza risposte sulla presenza di persone dei servizi bosniaco-musulmani e sul mancato stop degli attivisti, fino al ruolo dell’Onu, e a quel rapporto delle Nazioni Unite sul caso che risulterebbe ufficialmente "distrutto come consuetudine". Secondo Bocchi non sappiamo se a sparare fu un uomo di Caco, o un killer della polizia segreta, la Seve, che quel giorno si trovava proprio nell'enclave della X brigata. Il movente, sostiene il regista, va ricercato nelle azioni del Beati: “avevano attirato i sospetti dei servizi segreti musulmani. La marcia per la pace del 1992, che entrò a Sarajevo con il permesso dei serbo-bosniaci, li convinse che c’era qualcosa sotto. Volevano che questi cattolici umanitari italiani se ne andassero, davano fastidio con le loro iniziative. Anche quelle che sembravano innocue, come la distribuzione clandestina della posta per la gente che non aveva più contatti con i parenti fuori da Sarajevo, venne vista dai servizi segreti di Izetbegović come un’attività che poteva portare ordini o altro alla parte avversa”. Don Albino Bizzotto, leader dei Beati, promosse una manifestazione davanti alla base Nato di Aviano per impedire agli aerei dell’alleanza Atlantica di partire per bombardare le forze serbo bosniache. Un'iniziativa che forse non piacque ai musulmani. “I Beati erano molto controllati -  aggiunge l’autore del Ponte - Per ottenere la patente di associazione umanitaria dovettero rifornire di beni dieci giudici del tribunale di Sarajevo. I due terzi delle persone che giravano intorno a loro erano informatori della polizia”. 

C’è soltanto una foto che racconta l’azione inscenata sul ponte quel 3 ottobre. Esce, senza firma, sul Corriere della Sera che il giorno dopo titola “assassinato da un cecchino serbo”. La tesi, secondo Bocchi, costruita dai musulmani estremisti per dare la colpa ai serbi, che invece non parlarono mai di questa vicenda. Chi ha scattato quella foto? “Un fotografo che lavorava per un'agenzia di stampa e per i servizi segreti bosniaci musulmani – risponde Bocchi - Curiosamente quel giorno c’erano dei veri fotografi internazionali ma nessuno ha una foto di quei fatti. Lukovac, capo delle guardie del corpo di Izetbegović, li aggredì con pistola alla mano e si fece consegnare i rullini. Se fossero stati i serbi a sparare perché sequestrare queste prove? Io credo perché oltre a lui lì c’erano altri personaggi dei servizi segreti, della Seve. Quindi l’unica che c’è ha un valore simbolico e anche di prova. C'è poi da dire che tutti i musulmani coinvolti a vario titolo nella vicenda della morte di Locatelli avevano come referente Bakir Izetbegovic, il figlio di presidente”. 

Sarajevo 1993, pace e morte: la drammatica storia di Moreno Locatelli

ADMIRA E BOSKO



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