venerdì 30 ottobre 2020

NON E' VERO CHE VA TUTTO BENE !



Ho pensato e ripensato se fare o non fare questo post perchè il rischio di strumentalizzazione da parte di una certa parte politica che non è la mia è fortissimo, ma davanti a tante grida di dolore, non posso tacere. Ancora oggi, nel 2020, riceviamo ogni giorno richieste di aiuti dal Kosovo perchè ai serbi che vivono nelle enclavi viene tolta luce e acqua, i ragazzi vengono aggrediti e picchiati mentre vanno a scuola, le case dei serbi vengono bruciate, aggrediti i fedeli che escono dalle chiese ortodosse. Non è consentito portare una brojanica e le chiese vengono continuamente vandalizzate. Non esiste uno, un solo giornalista che dica una parola su questo, anzi assistiamo a informazione opposta: La vita kosovara di oggi è ben lontana dagli slogan propagandistici delle chiese "assediate" e dalle forme di nazionalismo estremo a cui è solitamente associata 

Davvero incomprensibile e inaccettabile 

Kosovo i Metohija - mart 2004.

Uno stato mafioso rubato alla Serbia

Kosovo, attacco allo scuola bus dei bambini serbi

Kosovo, uccisi due ragazzi serbi

Uccisi 14 contadini serbi sotto gli occhi della Kfor

Kosovo, continuano le violenze albanesi contro i serbi

Il Kosovo è Serbia

Musulmana bosniaca ama cristiano serbo, le rasano i capelli




venerdì 23 ottobre 2020

5 LUGLIO 1992

 



In questo giorno le forze musulmane provenienti da Srebrenica, finta zona demilitarizzata, continuarono la pulizia etnica entrando nel villaggio serbo di Krnice, dove uccisero i residenti.
La pulizia etnica era iniziata nei mesi di maggio e giugno nei villaggi serbi di Studenac, Viogor, Kovacice, Osredak, Orahovica, Pecista, Bukova, Bojna, Ratkovic Brezane e una dozzina di borghi in più uccidendo la popolazione serba che non era riuscita a scappare

Bosnia, Kravica 1993-2013: una strage impunita

Зашто се на споменику у Поточарима налазе имена 79 живих Бошњака?

La biblioteca di Pandora: "Srebrenica, come sono andate veramente le cose"

Hakija Meholjić - Srebrenica town betrayed (excerpt)

STORIA DEL TORNEO CANESTRI SENZA RETI

 


Tutto nacque nel non molto lontano 1999 ad Ivrea, quando alcuni eporediesi si misero in viaggio per la martoriata Serbia per portare un po' di aiuto alle popolazioni che da 78 giorni vivevano sotto le bombe umanitarie NATO.

Nella città di Kragujevac il gruppo incontrò i ragazzi dell'orfanotrofio. Lo shock fu grande. Non c'era nulla, scarseggiavano sia il cibo che l'acqua e i ragazzi avevano un grande desiderio: "giocare con dei ragazzi italiani".

Il gruppo eporediese rimase senza parole e pensare che era proprio dall'Italia che partivano gli aerei che andavano a bombardare in Serbia, ma loro non avevano nemmeno una parola contro di noi.

Al ritorno ad Ivrea ci si organizza subito. Vengono contattati i ragazzi dell'associazione sportiva "Lettera 22" e .. senza nemmeno crederci davvero.. si parte per una avventura che si è dimostrata tra le più fantastiche al mondo !

Il successo è immediato. Arrivano ragazzi dalla Serbia, dalla Macedonia, dalla Bosnia, dalla Croazia, dalla Russia, dalla Spagna e da ogni parte d'Italia.

I ragazzi della Lettera 22 sono a dir poco superbi nell'accoglienza e i ragazzi croati, bosniaci e serbi si adorano e giocano assieme tra una partita e l'altra.

Un autobus parte da Kragujevac, passa a prendere i ragazzi di Cacak e poi vanno a prendere i ragazzi di Tuzla.

Le strutture alberghiere si riempiono subito e così le famiglie eporediesi si offrono di ospitare in casa propria i ragazzi stranieri. E' un successo e nascono delle amicizie che non finiranno mai.

La partecipazione croata da una sorpresa. A Ivrea ha giocato Dario Saric' e sembra che abbia tutta la classe del grande Drazen Petrovic. Negli anni saranno moltissimi i ragazzi passati dal torneo eporediese che diventeranno cestisti di professione.

A giugno 2015 il torneo "Canestri senza reti" prende il premio "Campione per la vita". Si entra in FIBA.

Tutto si svolge dal 26 al 30 Dicembre ed è seguibile sulla pagina Face book, sul profilo Twitter e nel forum di Basket cafè

Sul nuovo sito della Lettera 22 c'è una sezione riguardante il torneo

Un grande grazie a tutti e vale la frase scritta su fb: "Canestri senza reti è una tra le cose più belle della vita"


www.facebook.com/CanestriSenzaReti/

 

giovedì 22 ottobre 2020

ARTUR E I COMPLICATI VIAGGI BALCANICI

 


Artur è un nome completamente inventato, ma è l'unica cosa inventata di tutto ciò che sto per raccontarvi.

Artur è albanese ed ha sposato una bellissima ragazza, albanese anch'essa. Per mantenere la famiglia è stato costretto ad emigrare prima in Macedonia, poi niente poco di meno che a Belgrado e poi in Italia.

Ora vive in Italia con i suoi 4 figli.

Nel 1995, in piene guerre balcaniche, aveva deciso di tornare al paese con la famiglia per rivedere i suoi cari.

Con la moglie e i bambini e la sua macchina vecchia e sgangherata ha fatto un viaggio che noi balcanici conosciamo molto molto bene, ossia è passato da nord, ovvero dall'Ungheria.

Giunti presso città di Baja, non molto lontani dal confine, ma in aperta campagna, la macchina si rompe.

Artur e la moglie sono disperati. E' notte, solo campi a destra e a manca.

In lontananza si vede una casa e Artur decide di andare a chiedere aiuto.

La casa è abitata da due signori che aprono la porta ad Artur e gli promettono due meccanici.

Ma Artur insiste per chiamare la polizia. Nulla da fare. I due signori chiamano i meccanici.

Dopo un po' arrivano due tipi loschi.

Il figlio più grande di Artur inizia a dire :

- Papà non ci fidiamo di questi 2

Ma Artur è una persona onesta e se sei onesto, ti aspetti che lo siano anche gli altri.

I due dicono ad Artur di togliere le valigie perchè devono guardare dappertutto dov'è il guasto.

Dopo un po' di lavoro la macchina parte e Artur s'illumina d'immenso, ma solo per un attimo, perchè, in men che non si dica, i due salgono sulle due macchine e scappano.

Artur inizia a piangere con la moglie e i figli. Quasi non ci crede. Una macchina vecchia e stravecchia, perchè rubarla ?

A questo punto del racconto faccio una pausa perchè io sono scoppiata a ridere.

Chiedo scusa ad Artur e a tutta la sua famiglia, ma mi sono venute in mente tutte quelle dicerie : albanesi tutti criminali, il popolo dei coltelli...

E invece quel povero uomo si era fatto fregare una carcassa di macchina da due criminali di xxxx .

Ma Artur è religioso e credente ed anche disperato. Torna alla casa e gli dice cio' che era successo, ma quei due non ne volevano sapere di nulla.

Allora Artur torna e guarda la moglie, i bambini e le valigie.

Alla vista delle valigie Artur capisce che c'è sempre una via di speranza, perchè avrebbero potuto anche rubargli l'auto con le valigie dentro, invece gliele hanno lasciate.

Iniziano a fare l'autostop, ma è piena notte, tempo di guerra, poche macchine e nessuno che si ferma.

Sull'autostop faremo in seguito una riflessione, ma a questo punto cosa credete che sia successo ?

Ma Nostro Signore non ci lascia mai e poi mai a piedi !

A questo punto è arrivato un angelo.

Non vi crediate che sia stato un angelo da quattro soldi, era un signor angelo !

Di ritorno dal viaggio in Austria per una partita di coppa Uefa, niente meno che un bel giocatore del Partizan !!!

Anche lui dall'Ungheria per non passare dalla Croazia. Tè credo !

Il sig. angelo si ferma, carica Artur e tutta la famiglia con le valigie e li porta fino al confine.

Al confine Artur e la sua famiglia devono scendere e noi sappiamo il perchè.. ma vi spiegheremo in seguito.

Artur è nuovamente in strada con la moglie e i bambini. Tutti con i passaporti albanesi e la frontiera serba.

Ma chi l'ha detto che serbi e albanesi non vanno d'accordo ?

Pensate forse che Nostro Signore abbia paura delle frontiere ?

E' arrivato l'angelo numero due.

Questa volta però era un angelo di serie b perchè c'era la guerra con la Croazia e tanti angeli erano impegnati.

L'angelo di serie B aveva una Golf beige e ha proposto ad Artur di portarlo fino a casa.

Artur tentennava. Erano 800 km, un viaggio lunghissimo. C'era la guerra, tempo in cui si ammazzava una persona per sole 100 mila lire.

Alla fine Artur accettò. L'angelo di serie B era anch'esso albanese, ma godeva di una serie di protezioni infinite anche in terreno serbo.

Saltata la frontiera, l'angelo B si muoveva in territorio serbo come se fosse casa sua e con un'organizzazione degna di un gran signore. Ad ogni provincia cambiava la targa della Golf.

Quella era un'operazione un po' delicata e lunga e quindi Angelo B tirava fuori il kalashnikov e sbullonava e reimbullonava le nuove targhe.

Tutto questo per 800 km, una famiglia di albanesi e un angelo di serie B in territorio serbo, durante la guerra.

Chi mi ha raccontato questa storia è il figlio di Artur, che adesso ha 32 anni.

All'epoca ne aveva 14 e quelle paure se le sogna ogni notte.

Il figlio di Artur lo chiameremo Eduart e vi posso dire che è arrivato su questo blog litigando a più non posso sempre per il fatto del Kosovo.

Io e Francy ci dicevamo sempre: c'è qualcosa che non va in questo ragazzo, sembra sempre che ti voglia dire qualcosa, ma poi non te la dice.

Ora Artur, ma soprattutto Eduart, hanno un sogno: quello di ritrovare l'angelo del Partizan.

Non dovrebbe essere difficile e se ci aiutate ce la possiamo fare.

Ad Artur dico: ti pensi di aver incontrato due angeli, ma forse l'angelo l'abbiamo incontrato noi, oggi, qui ed è di qualità super !

Grazie

 

lunedì 19 ottobre 2020

ANA E BORO

 Una sera d'estate del 1999, appena finiti i bombardamenti sulla piccola Jugoslavia, passai una sera con Ana, moglie di Boro, cari e fraterni amici; due giovani con la vita davanti che avrebbe dovuto essere vissuta.

Ana era disperata, Boro il suo amato compagno di vita, era uno dei 1300 serbi rapiti nel Kosovo Metohija dai terroristi dell'UCK, ancora non era tornato e non c'erano notizie sulla sua sorte.
Ana per tutta la sera pianse, pianse disperatamente e mi chiedeva se sarebbe tornato il suo compagno, il suo grande amore, se, uno di quei giorni avrebbe rivisto il suo viso, avrebbe riascoltato la sua voce, risentito la forza dei suoi abbracci.
Io non sapevo cosa dire e dissi solo che dovevamo sperare, sperare con forza.
L'abbracciai forte, le accarezzai quel viso dolce, bello, pulito, giovane.
Riuscii con difficoltà a non piangere, ributtai le lacrime indietro, anche a me stesso dicevo: dobbiamo sperare…
Poi uscii con ancora le lacrime di Ana sulla maglietta, sulle guance. Era estate ma pioveva quella sera di Luglio a Belgrado; così la pioggia si mescolò alle lacrime di Ana ed io camminavo e non mi riparavo dalla pioggia, essa mi stava aiutando…mescolava le lacrime. 
Cosa potevo fare: nulla.
Quando tornai, scrissi le righe qui sotto, le scrissi per la mia amica/sorellina Ana, forse le scrissi per tutte le Ana, sole e ferite dal dolore. Lei, per anni mi disse che la teneva sempre con sé, addosso, in tasca e quante notti se la leggeva e le dava forza…
Ma forse non avrei mai dovuto scrivere quelle righe. Forse….
Aspettalo, tornerà.
Aspettalo tanto, tanto.
Aspettalo quando le foglie gialle, diffonderanno tristezza.
Aspettalo quando ci sarà la neve e avrai freddo.
Aspettalo quando ci sarà l'afa e ti mancherà il respiro.
Aspettalo quando gli altri non lo aspetteranno più e si dimenticheranno del passato.
Aspettalo anche se non arriveranno sue lettere, perché forse sarà troppo lontano.
Aspettalo insieme a tutti coloro che aspettano, anche se sarà sempre più doloroso aspettare.
Aspettalo, egli tornerà, dopo aver sfidato la morte, le tempeste, i nemici.
…Solo chi non ha mai aspettato, chi non ha la forza di aspettare, non può capire.
Egli tornerà, vincendo le fiamme e gli impedimenti, perché lui sa che tu lo stai aspettando.
E con la forza del tuo amore, sarai stata tu a salvarlo, a farlo tornare…
E saprete solo tu e lui…come sei stata capace ed hai saputo aspettare il tuo uomo… 
E come lui ha lottato contro il destino e ogni avversità, per tornare da te.
…E sarete nuovamente insieme ed uniti…, 
grazie alla forza dell'amore, del vostro splendente e vero amore!

Boro… questa sera sono qui e alzo l'ennesimo bicchiere di Sljiva (..che aiuta a vivere e affrontare questo mondo…), lo alzo al cielo e sorrido malinconicamente, pensando a quel nostro ultimo incontro di Marzo a Belgrado di dieci anni fa….La tua risata fragorosa, i tuoi abbracci forti, le tue pacche vigorose. Parlavi del tuo grande amore e dicevi: …meno male che ancora non abbiamo un figlio, così quando torno sarà la prima cosa che faremo insieme ad Ana, anzi ne faremo due… e ridevi.
Aveva saputo che sarebbe stato richiamato come riservista…e mi dicesti…non vado in guerra, io sono contro le guerre, vado solo a fare il mio dovere per il mio paese e il mio popolo…
E abbracciandomi aggiungesti ridendo: brate ( fratello), anche tu sei un soldato, perché sei qui, "mobilitato" per difendere la giustizia e ridevamo…alla stazione degli autobus di Belgrado…
…Vidimo se kume ( ci vediamo compare) ! Mi dicesti mentre già ero sul bus e nei tuoi, nei nostri occhi e nel cuore c'era la voglia di vivere, c'era la consapevolezza però, che occorre anche un senso 
di dignità nel vivere…..

…..Ana così bella, pulita, semplice…oggi con i tuoi 35 anni che sembrano 70. Quel tuo viso così dolce, oggi così sciupato, usurato; quei tuoi occhi neri così belli e profondi, oggi così gonfi da dieci anni di pianti…Tra le lacrime, quasi con un sorriso velato di sottofondo, mi hai detto …sai Enri, almeno ora potrò venire qui e parlargli, sono fortunata…Peccato che non avevamo fatto un figlio, ora Boro rivivrebbe in lui… 
E le nostre lacrime bagnavano quella maledetta lastra di marmo nera, dove da poche settimane avevi deposto i resti ( poche ossa) del tuo uomo, che ti avevano consegnato, dopo averli ritrovati sotto un mucchio di terra, di un anonimo bosco del Kosovo…dopo dieci anni. 
Mentre fingevo di sorriderti dolcemente, dolce e forte sorella mia, il cuore mi sanguinava, la rabbia ribolliva in me con furore…ti ho abbracciato con forza ma anche lievemente, quasi avessi paura di fare male a quel corpo, quel viso che erano stati così belli ed ora così consunti, consumati e come quella sera di dieci anni fa con il tuo Boro…ho solo detto:… vidimo se sestra ( ci vediamo sorella)…anche se so che forse non ci vedremo più…solo che quella sera di dieci anni fa si rideva, stavolta lacrimiamo…Ciao piccola, grande donna dei Balcani e dentro di me pensavo:… Boro con la vita ha perso anche una donna come te…che maledizione !


…E anche se quel giorno al cimitero, non faceva freddo, andando via mi sono stretto nel giaccone perché il freddo dell'anima mi era arrivato alla pelle, mi sono girato ancora una volta per guardarti, forse l'ultima e con il cemento nei piedi e nel cuore mi sono incamminato… 
e ancora adesso non so verso dove. Avrei voluto girarmi ancora ma non ci sono riuscito e lacrimando ho pensato:…Buona fortuna Ana, la vita, forse un giorno, tornerà anche per te, e Boro sorriderà per questo, e come dice una canzone…un giorno torneremo ancora a cantare, a ridere, a ballare, a far l'amore…un giorno…forse. 
Non resta che continuare ogni giorno ad alzare le vele controvento, tenacemente, caparbiamente, in questi tempi di consumi, di smemoratezze, di superficialità, di desolidarizzazioni imperversanti, di individualismi dilaganti ed egoismi assunti a cultura di massa. Dove il "NOI" è sepolto. 
Chissà se il nostro tenace e ostinato impegno di solidarietà e di lotta per la verità e la giustizia, rivolto a questo popolo serbo aggredito, umiliato, violentato e oggi annichilito, rivolto in particolare verso i bambini, speranza e investimento per un nuovo futuro, possa anche contribuire a far crescere dei piccoli Boro, che in un nuovo tempo rialzeranno lo sguardo e si risolleveranno in piedi fieri, e riprenderanno il loro destino e futuro nelle proprie mani…chissà. 
Uomini semplici, buoni, "normali", dignitosi come il mio amico, fratello, kume Boro; un semplice soldato non di carriera, ma del suo popolo, che avrebbe voluto, come tutta l'umanità semplice e laboriosa, soltanto vivere, amare, lavorare, ridere, in pace…ma con dignità.


…Fosse stata una storia letteraria, avrei voluto finire così: 
…alla stazione degli autobus di Belgrado, Ana a casa ( diceva sempre che a lei non piaceva uscire alla sera, perché lei stava bene nella loro casetta) ed io e Boro che ci beviamo l'ultima Sljiva e tra risate, abbracci e pacche sulle spalle, ci diciamo… 
do viden ja kume, vidimo se! ( arrivederci compare, ci vediamo). 
Ed io sul bus sorridendo li penso abbracciati insieme; tra mille problemi di vita e difficoltà di tutti i giorni, ma innamorati e quando c'è l'amore vero, tutti sono più forti, tutti sono più ricchi…tutti siamo più umani…

Ma questa non è una storia americana, non è finita bene; è una storia vera dei Balcani… 
Non ci sono arrivederci, non ci saranno più pacche e abbracci…restano solo dei resti di un giovane uomo sotto una lastra di marmo nera, una sorella , splendida donna innamorata ma vedova, immense solitudini nell'anima, la sljiva e tante lacrime…perché non ci hanno convinto… 
ma per ora …ci hanno vinto! 
…Ma sii sereno amico, fratello, kume Boro…io sono ancora al mio/nostro posto … 
io sono ancora… "mobilitato" ! 
Enrico Vigna

sabato 17 ottobre 2020

FAVOLOSO UMBERTO (terza parte)

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Arrivammo a Decani il 28 di agosto, in una mattina soleggiata e calda così come lo erano state tutte quelle che ci avevano accolto nei nostri giorni in Kosovo.
Alloggiammo a Prizren, in un piccolo e comodo albergo consigliatoci da chi aveva già affrontato questo tipo di viaggio. Da lì, ogni mattina, dopo una tranquilla colazione, ci spostavamo in autobus verso le mete stabilite.
Decani ci spalancò le sue porte tra memoriali d’eccidi glorificati dalla bandiera rossa con l’aquila bicipite e lapidi incise con i nomi dei combattenti caduti nella guerra “di liberazione” combattuta alla fine del secolo. 
E statue snelle di guerriglieri immortalati in posizioni bellicose.
L’animata cittadina di Decani girava tutta attorno ad aiuole e rotonde, con tanta gente seduta fuori dai bar a bere birra Peja o a raccontarsi chiacchiere. 
Chiedemmo all’autista di un furgoncino posteggiato ai bordi della strada di condurci al monastero serbo. Per cinque euro accettò senza batter ciglio, avvertendoci però che ci avrebbe lasciato al primo posto di blocco sulla salita che di lì a poco avremmo affrontato. In effetti si trattava solamente un paio di chilometri.
Ci infilammo in un’angusta via che s’intrufolava a sua volta tra alberi che sembravano stringerla nel loro ombroso e rinfrescante abbraccio.
Poi la strada si allargò, divenendo sconnessa, e gli alberi lasciarono spazio alla vista mozzafiato sulle valli del fiume Bistrica, e allo spettacolo delle montagne circostanti che si stendevano a perdita d’occhio davanti a noi. Da una parte il precipizio, dall’altra mura di roccia.
Il furgoncino avanzava lentamente, senza oltrepassare la soglia dei 40 km/h, mentre comparivano sempre più frequenti le segnalazioni di rallentare indicanti l’approssimarsi del primo filtro di controllo che i soldati dell’esercito italiano mantenevano con pazienza ed attenzione.
Enormi blocchi di cemento, seminati a scacchiera lungo la strada, creavano una gincana che le auto dovevano necessariamente affrontare a bassissima velocità.
L’autista fermò la sua marcia, e ai primi soldati che si avvicinarono porse i documenti indicando a gesti la nostra presenza. Quindi scendemmo, e gli stessi soldati chiesero anche a noi di tirar fuori i documenti. Lo fecero in inglese, e quando gli dicemmo di essere italiani, allentarono subito la tensione con un istintivo “ e che ci siete venuti a fare qui?”.


Tennero comunque i documenti e ci accompagnarono al posto di guardia, una garitta di legno con i vetri blindati, scheggiati da colpi che potevano essere di pietre scagliate da lontano.
Avevano l’obbligo di registrare chiunque entrasse nel monastero, ma furono molto cordiali seppur nel delicato espletamento della propria attività.
Ce li restituirono in pochi minuti, chiamandoci per nome, e ci diedero il loro benvenuto al monastero serbo-ortodosso di Visoki Decani (Decani alto).
L’atmosfera rilassata che ci accolse contrastava con tutto il mondo che girava attorno a quella splendida opera d’arte. Potrò sembrare ripetitivo ma varcare la porta d’ingresso di questi paradisi vuol dire varcare la soglia di un’altra dimensione. 
Lì dentro la guerra, i contrasti intestini e tutte le altre storie sembravano lontane migliaia di miglia. 
La costruzione principale del complesso diffondeva la luce del sole, espandendola con la sua pietra chiara e i suoi marmi bianchi al contrasto col verde brillante dell’erba appena tagliata.
Era un giorno di festa.


Ce ne accorgemmo dalla quantità di gente che affollava il prato e sostava sotto gli alberi, intenta ad affettare il pane e a mangiare tranquillamente.
Bambini giocavano dando calci ad un pallone, mentre gruppetti di ragazze vestite per l’occasione passeggiavano sotto braccio chiacchierando e confessandosi a vicenda i segreti delle prime passioni. 
Alcune persone avevano addirittura imbandito una piccola tavola con una serie di vivande da consumare sul posto. Tutto aveva l’aria di un’allegra scampagnata alla quale partecipavano un centinaio d’invitati.
E in effetti era così. 
Qualcuno mi spiegò che il 28 agosto, secondo il vecchio calendario giuliano, ancora ufficialmente riconosciuto dal patriarcato serbo-ortodosso, non era altro che il nostro 15 agosto, e quindi quel giorno cadeva proprio la festa dell’Assunzione della Vergine.
Giornata dedicata naturalmente, oltre che ai sacri riti, anche a piacevoli ore da trascorrere all’aperto e in compagnia.
E quell’atmosfera allietava l’austero luogo incastonato tra boschi sperduti.
Entrammo nella chiesa per visitare gli splendidi affreschi, tra i quali quello raffigurante l’albero genealogico della dinastia Nemanja, situato sulla parete orientale del nartece. Un vero e proprio arazzo dipinto sul muro, che sembrava averlo assorbito per farne parte di sè.
Ci accodammo ad un gruppo di nostri ufficiali dell’esercito per ascoltare le descrizioni artistiche sulle opere d’arte che un gigantesco frate andava sciorinando con il suo accento flemmatico, parlando comunque un ottimo italiano.


Sosteneva con dignità, senza riferimento alcuno nelle parole, la propria vita di “assediato”. L’anomala situazione dei monasteri serbi in Kosovo e Metohija sembrava trasparire dal suo modo di illustrare la storia dei suoi predecessori a persone che erano da considerare, allo stesso tempo, sia difensori che occupanti. E, contemporaneamente, trapelava tutta la sua gratitudine verso quegli “stranieri”che li proteggevano, mentre questi lo stavano ad ascoltare ammirati di tanta saggezza.
E così ci parlò della favolosa iconostasi che avevamo davanti ai nostri occhi stupiti, che ci narrò essere l’unica originale appartenente al medioevo serbo. Vicino ad essa la tomba del fondatore del monastero, re Stefan Uros III “Decanski”, che il figlio Stefan Uros IV “Dusan”, l’imperatore sotto il quale la Serbia aveva raggiunto il suo massimo splendore nell’epoca, aveva fatto seppellire secondo la sua volontà, forse dopo averne addirittura procurato la sua morte.


Ci disse che la superficie affrescata della chiesa era da considerarsi la più grande superficie con affreschi sopravvissuti al tempo ed alla storia. In effetti, nonostante le dimensioni, bastava guardarsi attorno per perdersi tra migliaia di disegni e decine di scene complete. Non mancava chiaramente la figura di Decanski che, come fondatore, offriva il suo monastero a Dio, reggendolo tra le braccia.
Poi ci salutò, scusandosi di doverci lasciare poichè lo aspettavano due ufficiali polacchi, suoi vecchi amici.
Uscimmo.
La luce del sole abbagliò nuovamente i nostri sguardi.



Comprai una piccola croce di legno che da allora porto sempre con me, legata al collo.
Ridiscendemmo a piedi quella salita che ci aveva portato fin là, dopo aver augurato buon lavoro ai nostri soldati. 
Quella sera, quando ancora il sole era lontano dall’orizzonte, sulla strada polverosa verso Prizren, il nostro autobus ne sorpassò un altro che procedeva lentamente, scortato da alcuni veicoli militari dell’esercito italiano.
Capimmo.
Capimmo che trasportava la gente serba che quella mattina aveva trascorso la giornata di ferragosto, la festa dell’Assunzione della Vergine, al monastero di Decani.
Un velo di tristezza ci riportò a quella realtà che la leggenda nella quale avevamo vissuto per poche ore aveva dissipato.

Le prime due foto ci sono state regalate da Alberto samopravo.net
Le altre foto arrivano dal compagno di escursione di Umberto Li Gioi
Non vi scordate del bellissimo racconto di Alf !

FAVOLOSO UMBERTO (seconda parte)

 Prosegue da qui


Dopo un paio di giorni passati a Nis, tra la fortezza turca e le rovine romane, mi avviai verso Studenica.
La strada da percorrere era tanta e scelsi la cittadina di Aleksandrovac come un buon posto per affrontare la notte.
Per arrivarci dovetti percorrere numerosi tornanti, in una discesa che spesso sfiorava la folta vegetazione che sporgeva sulla stessa strada come tante braccia protese verso di me.
Scelsi di alloggiare nell’unico hotel allora disponibile, un vecchio edificio di chiaro stampo comunista, con larghe scalinate e ampi corridoi. La camera, seppur grande, era davvero spartana. Ma a me bastava.
La sera me ne andai in giro, e, per una tranquilla cena, m’infilai in uno dei ristorantini che si affacciavano sul sinuoso corso principale del paese.
Aleksandrovac, capoluogo del distretto di Zupa, così come tutta la zona circostante, è famosa per i suoi vini e ne provai subito l’ottima qualità quando il proprietario del locale mi offrì subito un buon bicchiere di rosso. Mi raccontò nel suo inglese zoppicante che il paese, per tutto l’anno fin troppo tranquillo, si animava improvvisamente nel periodo della vendemmia, quando venivano addirittura organizzate delle feste paesane per intrattenere i numerosi ospiti che accorrevano a prestare la loro opera per la raccolta dell’uva.
E mi narrò di una vecchia leggenda, secondo la quale il principe Lazar Hreblijanovic, prima di partire per la battaglia di Kosovo Polje, ricevette l’eucaristia con il vino prodotto ad Aleksandrovac. Avevo intessuto il mio sapere di altre storie e leggende. In fondo son proprio le leggende che creano la storia.


L’indomani mattina, dopo un’abbondante colazione con fette di pane spennellate di marmellata, partii alla volta di Studenica.
Risalii i tornanti che avevo disceso il giorno precedente e mi immessi sulla strada che intersecava la valle dell’Ibar, in direzione di Usce, piccolo villaggio nei cui pressi sorgeva il complesso monumentale di Studenica. 
Mi trovavo adesso nella Raska, uno degli stati medievali da cui ebbe origine il primo nucleo storico della vecchia Serbia. La strada, dopo alcuni chilometri riprese a salire, e mi trovai immerso in fitti banchi di nebbia che non facevano altro che rendere ancora più magica l’atmosfera. Le spirali di foschia sbattevano leggere contro i vetri dell’auto e gonfiavano l’aria d’umidità.
Tutt’attorno a me nient’altro che il silenzio, amplificato dalle particelle in sospensione. Provai ad immaginare cavalli e cavalieri che sbucassero dal nulla. Il tempo, un’altra volta ancora, aveva perso il suo significato. 
Avanzavo lentamente, sforzandomi di seguire i bordi della strada. Non incrociavo spesso altre automobili ma solo diversi carretti tirati dai cavalli che procedevano a passo d’animale. 
Poi il sogno svanì, nello stesso istante in cui sbucai fuori dall’ovatta che la nebbia aveva creato. Dopo l’apnea ricominciavo ad annusare l’aria. 
Il cammino proseguì per qualche altro chilometro finchè la strada non trovò respiro in un ampio spiazzale. Ma soprattutto sopra di me era tornato a splendere il sole. La giornata adesso si mostrava in tutta la sua serenità.
Scesi dall’auto. Ne sentivo proprio il bisogno. Con passo tranquillo mi avviai verso le mura del monastero che, seminascoste dalla vegetazione, avevano difficoltà ad offrire ai miei occhi il loro percorso circolare. Anzi, vista la leggera elevazione rispetto al piano, offrivano della loro presenza solo impercettibili segnali.
Iniziai a salire i lunghi gradini di pietra levigata, infestati dall’erba, e man mano che mi avvicinavo vedevo apparire le mura nella loro forma definitiva. Arrivai all’ingresso. Le mura in effetti erano relativamente basse, ma il loro profilo si addolciva man mano che esse giravano attorno alla loro stessa circonferenza.


La prima cosa che mi colpì, una volta entrato, fu la luminosità dell’intero complesso.
Tre chiese, una centrale alta e possente e due più piccole che le stavano attorno come satelliti.
Le cupole rosse spiccavano dai tetti chiari, grigi come fumo di nuvole, mentre le pareti esterne mostravano il colore della stessa pietra con la quale erano state edificate molti secoli prima.
Presi a gironzolare attorno agli edifici, seguendo il selciato del sentiero che, sparendo e riapparendo tra i ciuffi d’erba, sembrava dividere in settori i vari angoli della spianata verde.
La chiesa centrale, la chiesa della Vergine, con i suoi archi d’ingresso intarsiati di bassorilievi in marmo, era quella dove riposavano le spoglie mortali di Sv.Simeon, capostipite della dinastia dei Nemanja e padre di Sv.Sava, fondatore della chiesa autocefala serba. Il nome di battesimo di Sv.Simeon era appunto Stefan Nemanja, ed era stato colui che aveva fatto edificare, come sua offerta a Dio, il monastero di Studenica. E che aveva scelto come sua ultima dimora. Una scelta caduta proprio su un luogo che a me in quei momenti appariva come un vero paradiso sulla terra.
La chiesa dominava quel sito, la cui superficie mi sembrò ben più estesa di quelli che avevo precedentemente visitato. Mi sorprese la bellezza degli affreschi e il loro stato di conservazione che mi permise di notare anche alcune iscrizioni in serbo antico che andavano ad aggiungersi a quelle tradizionali in greco.


Le due chiese più piccole mi mostrarono altre sorprese.
La più grande delle due, la chiesa Reale, una vera e propria galleria di ritratti, mi consentì di ammirare i volti di Sv.Simeon e di suo figlio Sv.Sava, e quelli del re Milutin e della di lui consorte Simonida. Avevo letto di quei personaggi tra i miei libri di storia serba, ma finalmente potevo loro dare un volto vero. Un volto ammirato con i miei stessi occhi.
La chiesetta di Sv.Nikola mi mostrò invece solo affreschi disgregati dal tempo e difficilmente distinguibili se non con una buona illuminazione.
Prima di abbandonare quel luogo mistico, lasciai spaziare il mio sguardo lungo le colline ed i boschi che circondavano il complesso di Studenica. L’effetto tridimensionale che ne ricavai mi diede la sensazione che il monastero e la sua cinta muraria restassero sbalzati dal resto, mentre la luce proiettava le verdi colline come uno sfondo in profondità. 
Lasciai Studenica a malincuore ma con l’anima piena di gioiosa serenità. Avevo deciso, tra un pensiero e l’altro, di arrivare a Kragujevac prima di sera, senza però rinunciare ad una degna visita al monastero di Zica, sede originaria del patriarcato serbo-ortodosso.
E così fui di nuovo sulla strada.
Iniziai a costeggiare il corso del fiume Ibar, lungo un cammino stretto tra le sue gole ed enormi batoliti di roccia. Facendo occhio a non perdere la destra ammiravo le sue acque fangose scivolare tra detriti e rami spezzati, ed insinuarsi come serpenti tra la bassa vegetazione. 


Poi, proprio su un’ansa del fiume, ecco innalzarsi la collina con le rovine della fortezza di Maglic, edificata circa ottocento anni prima e utilizzata per dominare la vallata. 
Mi fermai ad una piazzola di sosta. Da quel punto non era possibile raggiungerla che con lo sguardo. Ma il fascino, l’ancestrale e guerriero fascino che emanava ancora, arrivava fino a me da quelle mura diroccate. 


Ripresi la strada, e stavolta arrivai senza altre soste fino a Zica.
Com’era diverso il monastero rosso di Zica da tutti quelli che avevo sin lì visitato. Colorato in rosso in memoria dei martiri della fede, splendeva come un rubino incastonato in un diadema di smeraldi.
C’era molta gente che entrava e usciva, ed il posto non era isolato come gli altri. Sapeva più di chiesa che di fortezza. Ma il suo splendore era dettato proprio dal colore delle mura dell’edificio centrale, un rosso mattone pastellato così denso e fresco che a guardarlo ti dava l’impressione che se gli avessi passato un dito sopra te lo avrebbe macchiato. La cupola squadrata, orlata di bianco così come i bordi e le grate delle finestre, era contrapposta al campanile. Agli angoli della chiesa sorgevano pini maestosi e piccoli abeti, che sembravano tracciarne e stabilirne la posizione ed il perimetro, come i punti che un architetto traccia sul foglio millimetrato prima d’iniziare un disegno. Il contrasto tra i due colori dominanti, il rosso dell’edificio ed il verde degli alberi, creava un colpo d’occhio pieno d’effetto. 


La storia serba anche qui aveva scritto pagine importanti. Re Stefan Nemanja in questa chiesa era stato incoronato, mentre un’altra leggenda raccontava che per ogni nuovo sovrano della dinastia era stata aperta una nuova porta.
Mi avviai soddisfatto verso la mia piccola grande auto, compagna di strada e di polvere, e ripresi il cammino. In un paio d’ore contavo di arrivare a Kragujevac, dove il giorno seguente mi sarei recato a visitare l’immenso parco Sumarice col doloroso memoriale d’ottobre.
Ma questa è un’altra storia.

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Umberto Li Gioi 

FAVOLOSO UMBERTO !

 

L'ho detto io che ci piovono favole infinite ?
Questa è una particolare. E' uno scrittore e ho dovuto fare delle puntate perchè da quando gli ho detto di scrivere per noi, ci si è buttato a capofitto.
Grazie infinite Umberto, è un piacere leggere queste righe !



Un bel giorno, in tarda mattinata, arrivai a Belgrado e all’aereoporto noleggiai un auto.
Era il luglio del 2005, cuore di una bella estate che arrivava dopo il gran caldo di quelle degli anni precedenti. 
Avevo deciso di girare alla ricerca dei monasteri ortodossi, fondamenta della chiesa autocefala serba. Alla ricerca di leggende e segreti che ormai da secoli custodivano.
Senza passare per Belgrado imboccai la E75 in direzione sud-est, verso Nis.
Avevo già in mente le destinazioni che avevo evidenziato sulla carta stradale con dei cerchi rossi, per non perderle mai. 
La cittadina di Despotovac, lungo il corso di un piccolo fiume chiamato Resava, sarebbe stata la mia prima tappa. Da lì, a cavallo tra quello stesso giorno e il successivo, sarei riuscito tranquillamente a visitare Manasija e Ravanica.


Dopo un’ora e mezza di viaggio, comprensiva di un veloce pranzo consumato in un piccolo grill lungo la strada, giunsi al bivio e da lì, in alcune decine di minuti, fui ad un tiro di schioppo da Despotovac. Trovai alloggio per la notte all’hotel Kruna, un civettuolo motel “ontheroad” che mi sento di consigliare per l’accogliente ospitalità. 


Il monastero di Manasija, anticamente chiamato Resavica proprio per la vicinanza del fiume, sorge a pochissimi chilometri dal paese, là dove la pianura comincia ad innalzarsi fino a formare alture collinose non elevate ma certamente evidenti. 
Man mano che mi avvicinavo con l’auto, la fortezza sorgeva tra la folta vegetazione delle alture e cominciava a stagliarsi sull’orizzonte alla mia destra. Gli alberi la nascondevano alla mia vista, facendola comparire e scomparire come in un puzzle cui venivano aggiunte tessere e poi tolte. Quindi una serie di curve in salita, e poi il sentiero, sotto le imponenti mura e le possenti torri. Undici torri di pietra.


Là, incuneato tra verdi colline ondeggianti, nascosto oltre le sue stesse mura, eccolo apparire aldilà del massiccio arco d’ingresso fregiato delle immagini di arcangeli che lo presentano al viandante. Tra aiuole di rose rosse curate da mani sapienti, ecco il monastero. 
I segni del tempo, chiaramente manifesti sulla cinta muraria, sembravano invece non aver nemmeno sfiorato quel gioiello d’arte e di storia, che se ne stava accovacciato nel suo nido di pietra e di fiori.
Fatto edificare da Stefan Lazarevic, figlio del principe Lazar Hrèbljanovic, il monastero mi mostrò all’interno i suoi santi guerrieri, difensori della fede, affrescati sulle pareti. L’antica bellezza era pari al timore che incutevano. Li ammirai per la prima volta nella vita. Dall’alto sembravano ammonire a non violare le sacre fondamenta e la sacralità di un luogo nato per preservare i misteri.


E poi l’affresco dello stesso zar Lazarevic che offre il suo monastero a Dio, tradizionale immagine che avrei trovato in tutti quelli che avrei visitato di lì a pochi giorni. 
Portava in braccio la chiesa come fosse un bambino. Come si fa con la propria creatura. 
Fuori il cielo era azzurro, appena velato di nuvole. E il silenzio incombeva come una coltre di nebbia. Anche i passi di un monaco vestito di nero che attraversava il giardino sembravano sparire nell’assoluta assenza di rumori. 
Mi guardai attorno, e il mio sguardo andò alto, cercando di scavalcare le mura. Mi sentivo protetto. Mi sentivo al sicuro nella fortezza di Manasija. Il senso di inespugnabilità non era solo riferito alla fede ma anche all’isolamento che i bastioni riuscivano a offrirmi. Era così da sempre, da oltre 600 anni. Tutt’attorno solo il verde scuro di inestricabili boschi.
Il giardiniere che mi passò accanto mentre, seduto all’aria aperta, cercavo di assaporare il mio stesso respiro, mi salutò con le tre dita alzate, simbolo dell’unità serba. Dio, re e patria. E allo stesso modo istintivamente risposi.

Nel tardo pomeriggio, dopo un breve giro per le strade di Despotovac, tranquilla cittadina con bambini che giocavano per la strada e donne che facevano la spesa, rientrai in hotel.
La proprietaria, una giovane donna allegra e decisa, mi preparò la cena. Un bisteccone, o meglio un hamburger. Pljeskavica, con patate, carote e cipolle tutte tritate a pezzettini. 
E mi offrì una sljivovica, dal colore giallo come l’oro. Mi raccontò che era preparata da suo padre, meticoloso realizzatore dell’antica ricetta.
L’indomani, prima che io lasciassi l’hotel, mi accompagnò nel retro e me lo presentò, suo padre. Gli esternò i miei complimenti per l’ottima grappa di prugne. Lui ringraziò, con dignità e un sorriso negli occhi.
Mi avviai alla ricerca del monastero di Ravanica, quello che da sempre aveva in me esercitato il fascino maggiore. Tra le sue mura era custodito il feretro con le spoglie mortali dello Knèz Lazar, l’eroe fatto santo da cui avevano preso origine l’epopea e il mito di Kosovo Polje. Una battaglia che è da considerarsi lo spartiacque tra la Serbia antica e quella moderna. Il martirio di un uomo era tornato ad essere, così come lo era stato quello del Cristo, simbolo di salvezza. Il simbolo di una scelta. Quella tra la gloria terrena e quella celeste. E Lazar Hrebljanovic aveva scelto quest’ultima. Avevo letto di storie e leggende nello stupendo resoconto che Rebecca West aveva scritto del suo peregrinare attraverso la Jugoslavia degli anni trenta. E il mito di Sv.Lazar mi aveva colpito.


La strada verso Ravanica fu tortuosa, e la mia meta sembrava non arrivare mai. Sulla carta stradale il percorso mi era apparso più breve, ma forse le numerose curve e l’apparire di piccoli paesi nemmeno indicati lo resero infinito. Quando mi fermavo per chiedere a qualcuno se la mia direzione fosse giusta, annuivano col capo e m’incoraggiavano ad andare avanti «Manastir Ravanice? Pravo, samo pravo» 
Una tipicità dei monasteri ortodossi, nati ai tempi del dominio ottomano per difendere la fede cristiana, era proprio quella di non apparire alla vista dell’uomo. Per trovarli bisognava cercarli attentamente, e solo allora, forse, sarebbe stato più semplice trovarli.
Avevo imparato questa lezione qualche anno prima in Bulgaria. Un monaco del monastero di Rila mi aveva raccontato che questi baluardi della fede nascevano proprio tra le montagne per crescere nascosti agli occhi del mondo. E a quelli degli invasori.

Non lo scorgevo ancora, eppure ero certo che ormai dovesse apparire ai miei occhi da un momento all’altro. Era come se girassi attorno alla mia coda senza riuscire ad afferrarla.
Accostai ai margini della strada per l’ennesima volta, sperando fosse l’ultima, e alla mia richiesta d’informazioni l’anziana signora scoppiò in una genuina risata. Con l’indice della mano destra mi fece un chiaro segnale. Il monastero stava là, alla mia sinistra. Bastava voltarsi e guardare. 
Stava là, come sbucato dal nulla. La strada declinava leggermente e si immetteva in una spianata d’erba brillante per la luce del sole. 
Entrai, e dopo aver parcheggiato varcai l’arco d’ingresso.
Ciò che mi colpì all’istante fu l’imponenza di quella costruzione, i cui colori variavano armonicamente dal bianco al rosa denso, e la facciata di pietra variopinta ai piedi della quale si apriva la porta principale. Essa sembrava un blocco a sè stante.
Trattenni il fiato. Stavo per entrare e trovarmi al cospetto del principe Lazar. Stavo per spalancare i miei occhi sulla battaglia di Kosovo Polje.
Alla destra dell’altare, ricoperto dalla bandiera serba, stava la tomba dell’uomo che aveva cambiato per sempre la storia del suo paese. La sua sconfitta sul campo di battaglia avrebbe impresso per sempre sulla leggenda il marchio del martirio.


Restai assorto per diversi minuti, come cercando di mettermi in contatto con quell’uomo sulle cui vicende avevo letto tanto. Non c’era nessuno attorno a me, soltanto alcune suore che girovagavano entrando e uscendo dal tempio. Sono questi i momenti in cui si assapora l’eternità. Quelli che nascono quando ci si trova di fronte ad un mito, leggendario o reale che sia. Poi uscii anch’io e iniziai a vagare attorno al monastero. Anche qui, come a Manasja, il tempo sembrava non far parte del tutto. Bastava immedesimarsi soltanto un po’ per sentir scorrere addosso i segni di un mondo lontano.


Una donna, che parlava benissimo l’inglese e che mi disse di essere una studiosa, uscì sorridente dagli alloggi dei monaci e insistette per scattarmi una foto. Insistette tanto che alla fine glielo consentii. E la resi felice. Poi mi avviai all’auto e ripartii alla volta di Nis. Da lì, dopo un paio di giorni avrei ripreso la strada verso Studenica....

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Umberto Li Gioi.



venerdì 16 ottobre 2020

IL KOSOVO E' SERBIA

 










Traffico d'organi in Kosovo, l'orrore torna a galla
























La centralità che riveste il mantenere una netta separazione tra la Russia e l’Europa è indubbiamente alla base dell’immutato interesse con cui gli statunitensi hanno continuato a guardare alla regione balcanica negli anni successivi, sfruttando la crisi del Kosovo come pretesto per procedere al definitivo smantellamento di ciò che rimaneva della Jugoslavia. Quel Kosovo che, dopo esser stato liberato dalla “oppressione serba” grazie all’intervento militare della Nato del 1999, si è progressivamente trasformato, al pari della disastrata Bosnia-Erzegovina, in una sorta di feudo islamiz­zato dell’Alleanza Atlantica (ospita la più grande base Usa in Europa, Camp Bondsteel) guidato politicamente da personaggi che si trovano al centro dei più sporchi traffici internazionali (droga e organi in particolare). Nonostante ospiti Camp Bondsteel, la più grande base militare che gli Stati Uniti hanno in Europa, il Kosovo si è accreditato alla fine del 2015 come il «principale vivaio dello “Stato Islamico” in Europa, nonostante sul suo piccolo territorio siano presenti 5.000 soldati della missione Nato a guida italiana e 1.500 agenti della missione di polizia europea Eulex. Secondo i dati del Ministero degli Interni di Pristina, sono almeno 300 i kosovari che sono andati in Siria a combattere con il Califfato e che fanno rego­larmente avanti e indietro via Turchia e Macedonia. Questo dato fa del Kosovo, che ha solo 1,8 milioni di abi­tanti, il principale serbatoio europeo pro-capite di foreign fighter dello “Stato Islamico” e una rampa di lancio per future azioni terroristiche in Europa».





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