venerdì 16 dicembre 2022

Riposa in pace Siniša Mihajlović, grande serbo, grande uomo, grande campione, leggenda nostra

 



Hvala na svemu, Siniše, i počekaj u miru



"La Serbia senza il Kosovo sarebbe come Roma senza il Colosseo". (S. Mihajlovic). Addio al grande serbo Siniša Mihajlović. La sera avevano giocato tutti a carte e la mattina lo zio croato voleva uccidere suo padre serbo e su tutti i muri c'era la scritta : uccidi il serbo . Guardatevi dagli ustascia croati ... sarebbero capaci di uccidere la loro famiglia come hanno fatto con più di 100 parenti di Tesla.. tutti messi a morte




L’immagine peggiore che hai della guerra?
«Giocavo nella Lazio. Apro Il Messaggero e vedo una foto con due cadaveri. La didascalia diceva: due croati uccisi dai cecchini serbi. Uno aveva una pallottola in fronte. Era un mio caro amico, serbo. Lì ho capito, su di noi hanno raccontato tante cose. Troppe non vere».






Mihajlovic è morto

di Arianna Ravelli - 16 dicembre 2022 - Corriere della Sera
Sinisa Mihajlovic è morto oggi a causa della grave forma di leucemia che lo aveva colpito anni fa. L'allenatore di calcio ed ex calciatore serbo aveva 53 anni. Lascia la moglie Arianna e sei figli, una delle quali gli aveva da poco dato una nipotina.
È luglio, anno 2019, siamo nella sede di Casteldebole, il centro di allenamento del Bologna. Sinisa Mihajlovic qualche giorno prima, quando era ancora in vacanza in Sardegna, ha sentito un dolore all’adduttore, aveva dato la colpa al padel, agli allenamenti tosti a cui si sottoponeva anche a 50 anni, pensava a un’infiammazione.
I medici del Bologna hanno insistito perché facesse degli approfondimenti e gli hanno appena presentato, con mille precauzioni, l’esito: leucemia. Pausa. «Ma con questa leucemia si vive o si muore?», la sua reazione, senza girarci attorno, dritta al punto.
Con questa leucemia, oggi, Sinisa Mihajlovic è morto. Ed è un finale che strazia, dopo tre anni di lotta e di speranza, come in un libro scritto male la fine è arrivata per Natale, adattando Francesco Guccini e la sua storia ambientata sempre a Bologna.
Ma per tre anni Sinisa ha vissuto, ha lottato, allenatore della sua stessa terapia, voleva sapere tutto da medici e infermieri: tre ricoveri e tre cicli di chemio, un trapianto, il ritorno in panchina a tempi record per la prima col Verona, gli occhi infossati, i chili persi, un altro sorriso dell’amatissima moglie Arianna (un colpo di fulmine tanti anni fa a Roma, «chissà che figli bellissimi verrebbero con lei», sono stati cinque: uno più bello dell’altro in effetti), gli allenamenti seguiti sull’iPad, la squadra sotto la finestra dell’ospedale a festeggiare le vittorie (e la sua ironia, graffiante, «non mi fanno uscire perché porta bene, perdete sennò mi tengono qui»), il festival di Sanremo con l’amico Zlatan Ibrahimovic, un esonero discusso, la nascita della nipotina Violante, figlia di Virginia, una ricaduta, altre cure, un altro trapianto.
Vita. Complicata, diversa da quella di prima, ma vita.
Dieci giorni fa Sinisa era comparso a sorpresa a Roma alla presentazione del libro di Zdenek Zeman, due irregolari che si sono sempre piaciuti. Nessuno poteva immaginare che sarebbe stata la sua ultima uscita pubblica.
Nell’autobiografia scritta con Andrea Di Caro, vicedirettore della Gazzetta dello Sport, Sinisa raccontava che era nato due volte, la prima il 20 febbraio 1969, a Vukovar, ex Jugoslavia, «era un giovedì e non ho pianto. Mi hanno raccontato che avevo già un’arietta da duro, hanno dovuto sculacciarmi tre volte per farmi emettere un urlo».
La seconda il 29 ottobre 2019, all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, grazie a un ragazzo americano, sconosciuto, che gli aveva donato il midollo osseo. Quella volta, Sinisa pianse eccome: doveva essere l’inizio di un percorso più lungo. Non era la stessa persona. Non era più quello che divideva, del «che c… guardi?» a chi soffermava lo sguardo, che veniva chiamato zingaro negli stadi, era il Sinisa che aveva contagiato tutti con la sua lotta e la sua debolezza, la sua sfida alla malattia «giocata attaccando e pressando alto», un Sinisa che non era abituato a trovare tutto questo consenso, lui che non lo aveva mai cercato.
Nel calcio c’è spazio per un luogo comune alla volta, così per parlare di Mihajlovic non si può non attingere al vocabolario del guerriero, del combattente, perché è così che si cresce a Borovo, con papà Bogdan, camionista, e mamma Viktorija, operaia alla Bata, la fabbrica di scarpe che lo lasciavano a 5 anni a badare al fratello più piccolo Drazen, poi calciando tutto il giorno da una parte all’altra di un enorme campo con due porte senza reti, una banana divisa come il migliore dei regali (tanto che il massimo dei sogni, per il futuro, era «un camion di banane che mi sarei mangiato tutto da solo»), e poi naturalmente la guerra fratricida in casa, le famiglie disgregate, lo zio, croato, fratello della madre, che voleva «scannare come un porco» suo padre, l’amicizia con la Tigre Arkan.
Per uno che ha visto questo, cosa volete che fossero le ansie del pallone? Che siano vincere da calciatore con Stella Rossa (una Champions da ragazzino), Lazio e Inter (due scudetti, 4 Coppe Italia, una Coppa Uefa, una Supercoppa, 28 gol su punizione, tre nella stessa partita), diventare allenatore prima da secondo di Mancini e poi in proprio, Bologna, Catania, Fiorentina, Sampdoria, il salto al Milan, e poi Torino, ancora Bologna.
Di sé stesso in panchina ha sempre rivendicato la capacità di valorizzare i giocatori, lanciare i giovani, far crescere il valore della squadra. «Guardate chi è arrivato dopo di me: ha sempre fatto peggio», ed era vero. Ma Sinisa era anche un uomo spiritoso, capoclan allegro, la musica serba nelle orecchie, che faceva vedere i film ai suoi giocatori, che amava Kennedy e leggeva i libri su Ghandi, che ha ricucito anche i rapporti incrinati dopo gli esoneri «perché non voglio lasciare macerie».
Ne aveva viste abbastanza nella sua vita. Dell’Italia, che considerava casa, diceva che era un Paese «incattivito, senza più solidarietà, come la mia ex Jugoslavia, per fortuna che voi siete tutti cattolici».
Lui aveva scelto tre fotogrammi per sintetizzare la sua vita: «La prima volta che ho visto Arianna; la nascita dei miei figli; la rincorsa, il sinistro e la palla all’incrocio».
Quest’ultima palla è uscita. Quindi Sinisa, con questa leucemia si muore. Ma, un pochino, si vive per sempre.








L'ex calciatore e allenatore, scomparso dopo una battaglia contro la leucemia, nel 1991 aveva lasciato la città croata di Borovo, dov’era cresciuto, a causa del conflitto nella ex Jugoslavia. "Con la guerra non esistevano più i legami familiari: mio cugino voleva buttare una bomba in casa - ha raccontato anni dopo - Io sono nato a Vukovar, i croati erano maggioranza, c’era la caccia al serbo". In Italia "speravo che i miei allenamenti durassero 24 ore perché solo in quei momenti non pensavo ai bombardamenti"





Ma le atrocità commesse?
«Le atrocità? Voi parlate di atrocità, ma non c’eravate. Io sono nato a Vukovar, i croati erano maggioranza, noi serbi minoranza lì. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni aveva vissuto insieme da un giorno all’altro si sparava addosso. È come se oggi i bolognesi decidessero di far piazza pulita dei pugliesi che vivono nella loro città. È giusto? Arkan venne a difendere i serbi in Croazia. I suoi crimini di guerra non sono giustificabili, sono orribili, ma cosa c’è di non orribile in una guerra civile?»
Sì, ma i croati…
«Mia madre Viktoria è croata, mio papà serbo. Quando da Vukovar si spostarono a Belgrado, mia mamma chiamò suo fratello, mio zio Ivo, e gli disse: c’è la guerra mettiti in salvo, vieni a casa di Sinisa. Lui rispose: perché hai portato via tuo marito? Quel porco serbo doveva restare qui così lo scannavamo. Il clima era questo. Poi Arkan catturò lo zio Ivo che aveva addosso il mio numero di telefono. Arkan mi chiamò: “C’è uno qui che sostiene di essere tuo zio, lo porto a Belgrado”. Non dissi niente a mia madre, ma gli salvai la vita e lo ospitai per venti giorni».







Faccio ancora fatica a realizzare che sia accaduto.
Ho gli occhi gonfi di lacrime ed un nodo alla gola, neanche fossi mio parente!
Sei uno dei pochi esempi che ho seguito, quell'eroe che nel periodo più difficile è burrascoso come l'adolescenza ha reso più stabile.
Oltre alle ottime doti calcistiche dove ad ogni punizione c'era più probabilità di gioire che altro, il tuo essere orgoglioso delle proprie radici Serbe ti ha messo, spesso, in difficoltà anche con la tua carriera.
Ti hanno sputato tanto veleno addosso come le amicizie con Arkan o malati nazionalismi, ma tu incassavi e rispondevi sul campo.
Sono orgoglioso di te!
sei stato un faro per tutta la comunità Serba in Italia e non solo, diaspora in generale.
Hai difeso, hai fatto goal, hai vinto non solo per te ma anche per noi portando in alto l'identità serba, figli delle bombe non solo di Vukovar, da dove provieni, ma di quel castello di carta che pochi si ricordano, Jugoslavia.
Sono fiero che in questo giorno triste TUTTI ti omaggiano come meriti, GUERRIERO!
Grazie di essere vissuto.
Riposa in pace Siniša
Dalibor




Mi dispiace tantissimo, speravo che saresti riuscito ad allungare per un pò e godere la tua condizione di nonno che tanto ti piaceva. Saresti stato un bravo nonno.
Ci siamo conosciuti nel lontano 1999, da poco finita la guerra.
Con Un Ponte per...abbiamo organizzato un estate nelle famiglie romane per i bambini serbi orfani del Kosovo. Un giorno li abbiamo portati allo Zoo.
Ti abbiamo invitato a venire con noi e passare il pomeriggio firmando le magliette e facendo le foto con i bambini.
I bimbi erano entusiasti, tutti si volevano fotografare, fare le domande, starti vicino, fare due tiri a pallone con te.
Abbiamo mangiato una pizza insieme.
Sicuramente quei bambini ora si ricordano di quella bella giornata di serenità che sei riuscito, assieme a tua moglie, a regalargli.
Sei stato un grande campione ed una brava persona. Riposa in pace, sei da sempre una legenda.
Jasmina






Mihajlovic: «Vi racconto la mia Serbia,
prima bombardata e poi abbandonata».
L'intervento Nato dieci anni fa. Sinisa: dagli americani soltanto morte.
Il 24 marzo 1999 la Nato cominciò i bombardamenti sulla Federazione Jugoslava. Quando l’hai saputo? Dov’eri?
«In ritiro con la nazionale slava. La notte prima ci avvisarono che la guerra sarebbe potuta cominciare. Eravamo al confine con l’Ungheria, la Federazione ci trasferì in fretta a Budapest. La mattina dopo sulla Cnn c’erano già i caccia della Nato che sventravano la Serbia».
Qual è stata la tua prima reazione?
«Ho contattato i miei genitori, stavano a Novi Sad. Li ho fatti trasferire a Budapest, ma papà non voleva. Da lì siamo partiti per Roma (ai tempi giocava nella Lazio, ndr), ma dopo due giorni mio padre Bogdan ha voluto tornare in Serbia. Mi disse: "Sono già scappato una volta da Vukovar a Belgrado durante la guerra civile. Non lo farò ancora, non potrei più guadare i vicini di casa quando i bombardamenti finiranno". Prese mia madre Viktoria e se ne andarono. Ero preocuppato, ma fiero di lui».
Il tuo rapporto con gli americani?
«Non li sopporto. In Jugoslavia hanno lasciato solo morte e distruzione. Hanno bombardato il mio Paese, ci hanno ridotti a nulla. Dopo la Seconda Guerra Mondiale avevano aiutato a ricostruire l’Europa, a noi invece non è arrivato niente: prima hanno devastato e poi ci hanno abbandonati. Bambini e animali per anni sono nati con malformazioni genetiche, tutto per le bombe e l’uranio che ci hanno buttato addosso. Che devo pensare di loro?».
Sei un nazionalista?
I miei erano gente umile, operai, ma non ci mancava niente. Andavano a fare spese a Trieste delle volte. Con Tito esistevano valori, famiglia, un’idea di patria e popolo. Sono più comunista di tanti. Se nazionalista vuol dire patriota, se significa amare la mia terra e la mia nazione, beh sì lo sono».
È giusta l’indipendenza del Kosovo?
«Il Kosovo è Serbia. Punto. Non si possono cacciare i serbi da casa loro. No, l’indipendenza non è giusta per niente»
Sei ambasciatore Unicef da dieci anni e hai aperto una casa di accoglienza per gli orfani a Novi Sad.
«Sì è vero, ce ne sono 150, ma non ne voglio parlare. So io ciò che faccio per il mio Paese. Una cosa non ho mai fatto, come invece alcuni calciatori croati: mandare soldi per comprare armi».
L’immagine peggiore che hai della guerra?
«Giocavo nella Lazio. Apro Il Messaggero e vedo una foto con due cadaveri. La didascalia diceva: due croati uccisi dai cecchini serbi. Uno aveva una pallottola in fronte. Era un mio caro amico, serbo. Lì ho capito, su di noi hanno raccontato tante cose. Troppe non vere».









Grande emozione per la conferenza stampa in cui ha comunicato di essere affetto da una forma aggressiva di leucemia.
Personaggio scomodo, ruvido, ma conscio del privilegio di far parte di un mondo, il calcio, che consente a certi livelli di non essere afflitti dalle problematiche che rendono difficile, precaria, la vita della stragrande maggioranza delle persone.
Chi voleva, e vuole, offenderlo, lo chiama “zingaro” .
Sinisa Mihailovich è un serbo della ex Jugoslavia, aggredita e devastata nel 1999 per non volersi piegare al “Nuovo ordine mondiale” fiorito con la caduta del muro. Nel decennale di questo crimine perpetrato dalle “grandi democrazie occidentali”, l’ Antidiplomatico intervistò Mihailovich: un’intervista che consiglio di andare a rilegge, o a leggere. Nel delirio di menzogne che promossero e legittimarono i bombardamenti nazisti su Belgrado (con la schifosa partecipazione dell’ Italiozza governata da D’ Alema), Mihailovich visse il dramma che derivava da quello che invece fino ad allora era stato un modello di convivenza interetnica, madre croata e padre serbo. In quel periodo Sinisa giocava nella Lazio ed ebbe modo di constatare da vicino le manipolazioni della stampa: sulla prima pagina del maggior quotidiano romano, Il Messaggero, riconobbe il cadavere di un suo amico serbo con un foro di proiettile in fronte, che il quotidiano presentava come vittima dei “cecchini serbi”. Stesso stravolgimento della realtà a proposito del Kossovo, dove oggetto di pulizia etnica furono, e sono, i serbi; la stessa propaganda che commemora la strage di Srebrenica e tace degli antefatti, delle vessazioni, delle discriminazioni, e della cacciata dei serbo bosniaci (250.000) dalle loro case, dal loro territorio. Sinisa venne infamato come fascista per il suo “elogio” di Arkan, intervenuto a difesa dei cittadini serbi espropriati cacciati, ammazzati. Racconta dell’allucinante telefonata di suo zio croato alla sorella (madre di Sinisa), fuggita col marito (padre di Sinisa). “Perché sei fuggita? Quel porco serbo di tuo marito meritava di essere scannato”.
“Io sono comunista più di tanti altri”, precisa. E ricorda la Jugoslavia vissuta da ragazzo; e ovviamente Tito che era riuscito a creare un miracolo di convivenza pacifica tra molte etnie e uno stato sociale che permetteva a tutti una vita dignitosa.
“Cosa ne pensi degli americani”?
“Cosa posso pensare di criminali che hanno bombardato scuole, ospedali, fabbriche del mio Paese?” 
Lo stesso che degli yankee penso io, caro Zingaro. Anche stavolta ce la farai.

Hasta siempre!!!

Sinisa lo zingaro





Per i fascistelli dem ora Mihailovic è uno "zingaro"

Mihajlovic: «Vi racconto la mia Serbia, prima bombardata e poi abbandonata»

«Mi chiamano fascista per la vicenda Arkan, sono più comunista di tanti altri»

Siniša Mihajlović 66 Freekick Goals

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E' morto Sinisa Mihajlovic

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I libri di Danilo Crepaldi





Onore a te, alla tua vita da guerriero e alla tua serbita', alla quale non hai mai rinunciato. Mi piaceva paragonarmi a te quando difendevo la Serbia a spada tratta. Dicevo che solo Sinisa e io, non abbiamo mai dimenticato chi siamo e da dove veniamo. Arrivederci mio eroe, chi lascia la scia nel tempo, traccia la via verso altrove diverso, quello che ambedue abbiamo auspicato alla nostra gente e a noi
Slobodanka Ciric










Le parole di Sinisa Mihajlovic
Alla vigilia del quarantesimo compleanno di Zlatan Ibrahimovic, Sinisa Mihajlovic gli ha fatto gli auguri dalle pagine della Gazzetta dello Sport. "La prima volta ci siamo presi a testate in campo: insulti e botte fino ad essere espulsi. L’ultima ci siamo ritrovati a cantare insieme, ma sarebbe meglio dire a stonare, sul palco di Sanremo distruggendo il brano “Io vagabondo”. Tra quel 20 aprile 2005 in cui ti venni a cercare nello spogliatoio per menarti senza trovarti, ma pensando 'questo ragazzo ha le palle', e il Festival dello scorso anno, quando mi hai voluto tuo ospite, sono passati 16 anni e tanta vita".
"Ci siamo dovuti prima scontrare per capire che eravamo fatti della stessa pasta: quella delle persone dure, sicure, ma sempre vere. Nel tempo ho scoperto che l’uomo Ibra vale quanto se non addirittura più del campione. E l’ho capito ancora una volta quando, durante la mia malattia, mi hai chiamato in ospedale e non riuscivi a parlare per la commozione, ma hai detto con un filo di voce: 'Sini, per te sono disposto a tutto, chiamami e gioco anche gratis...'. Sai quanto mi sarebbe piaciuto averti in squadra, ma era giusto però che tu tornassi al Milan per chiudere una carriera epica. Che non è ancora finita. So che regalerai ancora gol, prodezze e frasi a effetto, con la classe e la personalità che ti rende unico al mondo. Auguri amico mio carissimo: per i leoni come te, il tempo che passa non conta".











Ciao Sinisa, per sempre grande campione, dentro e fuori dal rettangolo di gioco!
Questa una sua intervista al Corriere del 2009:
Il tuo rapporto con gli americani?
«Non li sopporto. In Jugoslavia hanno lasciato solo morte e distruzione. Hanno bombardato il mio Paese, ci hanno ridotti a nulla. Dopo la Seconda Guerra Mondiale avevano aiutato a ricostruire l’Europa, a noi invece non è arrivato niente: prima hanno devastato e poi ci hanno abbandonati. Bambini e animali per anni sono nati con malformazioni genetiche, tutto per le bombe e l’uranio che ci hanno buttato addosso. Che devo pensare di loro?».
Hai nostalgia della Jugoslavia?
«Certo, di quella di Tito. Slavi, cattolici, ortodossi, musulmani: solo il generale è riuscito a tenere tutti insieme. Ero piccolo quando c’era lui, ma una cosa ricordo: del blocco dei Paesi dell’Est la Jugoslavia era il migliore. I miei erano gente umile, operai, ma non ci mancava niente. Andavano a fare spese a Trieste delle volte. Con Tito esistevano valori, famiglia, un’idea di patria e popolo. Quando è morto la gente è andata per mesi sulla sua tomba. Con lui la Jugoslavia era il paese più bello del mondo, insieme all’Italia che io amo e che oggi si sta rovinando».
Sei un nazionalista?
«Che vuol dire nazionalista? Di sicuro non sono un fascista come ha detto qualcuno per la faccenda di Arkan. Ho vissuto con Tito, sono più comunista di tanti. Se nazionalista vuol dire patriota, se significa amare la mia terra e la mia nazione, beh sì lo sono».
È giusta l’indipendenza del Kosovo?
«Il Kosovo è Serbia. Punto. Non si possono cacciare i serbi da casa loro. No, l’indipendenza non è giusta per niente».
Dieci anni dopo la guerra cos’è la Serbia?
«Un paese scaraventato indietro di 50-100 anni. A Belgrado il centro è stato ricostruito, ma fuori c’è devastazione. E anche dentro le persone. Oggi educare un bambino è un’impresa impossibile».
Perché?
«Sotto Tito t’insegnavano a studiare, per migliorarti, magari per diventare un medico, un dottore e guadagnare bene per vivere bene, com’era giusto. Oggi lo sapete quanto prende un primario in Serbia? 300 euro al mese e non arriva a sfamare i suoi figli. I bimbi vedono che soldi, donne, benessere li hanno solo i mafiosi: è chiaro che il punto di riferimento diventa quello. C’è emergenza educativa in Serbia. L’educazione dobbiamo far rinascere”.






Прослављени српски фудбалер и тренер Синиша Михајловић преминуо је у 54. години живота у Риму, после дуге и тешке болести. Михајловић је рођен 20. фебруара 1969. године у Вуковару. Поникао је у локалном Борову у којем је постао професионалац 1986. Две године касније прешао је у новосадску Војводину, а 1990. стиже у Црвену звезду са којом је постао шампион Европе и света. После две сезоне на „Маракани” сели се у Италију где је у дресу Роме, Сампдорије, Лација и Интера стекао статус једног од најбољих дефанзиваца Серије А. Био је специјалиста за слободне ударце и пенале, а сматра се за једног од најбољих извођача „слободњака” у историји фудбала. Био је шампион Италије са Лациом и Интером, а са римским клубом је освојио још Куп победника Купова и УЕФА Суперкуп. Проглашен је за најбољег фудбалера Југославије 1999. године. Одиграо је 63 утакмице за репрезентацију и постигао десет голова. Као тренер је водио Болоњу, Катанију, Фиорентину, Сампдорију, Милан, Торино, Спортинг и на крају Болоњу. Био је и селектор Србије, а 2019. је добио признања за тренера сезоне у нашој земљи.

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