martedì 27 dicembre 2022

Risposte alle questioni poste dal sig. Cristiano Pambianchi. G


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Maggiori informazioni in  NOI INNAMORATI DI CRISTIANO PAMBIANCHI


10 NOVEMBRE 2022
Mediamente un like a post.. ma vero.. tanti fake .. tanti like
Obama l'ha fatto vincere la pubblicità del grande giornalista che sostiene il web da 20 anni a questa parte ! 🤣








Se la matematica non è una opinione sarebbero 32, ma non di libertà, di squallore 





Ah.. i cetnici torinesi sono davvero difficili da gestire eh ! 

Chiediamo un parere a Lina Bertorello













 I brani seguenti sono presi dal libro "Dalla Jugoslavia alle repubbliche indipendenti"




Cosi' tanto per dire: siamo nel 1990, è il 19 agosto: Referendum sull’autonomia a Knin, nonostante il divieto della Corte costituzionale croata e l’intervento di truppe anti-sommossa del ministero degli Interni. Il 99,97% si esprime favorevolmente, gli aventi diritto al voto sono solo i serbi di Croazia e delle altre repubbliche della Federazione nati in Croazia. Krajina, deriva da kraj, confine, quindi “terra di confine” o “marca”. É la denominazione della zona di frontiera tra l’Impero asburgico e quello ottomano. Tale zona si estende dall’entroterra della Dalmazia al corso della Sava. È in parte serba e in parte croata perché in questi territori si insediarono i serbi come parte di un sistema militare incaricato di tamponare le infiltrazioni ottomane. Le terre confinanti con l’Impero ottomano dipendevano direttamente dalla corte viennese e ai suoi abitanti era concesso uno status socio-politico privilegiato in cambio della difesa armata. Alle genti di confine, i kraijšnici, furono imposte severe obbligazioni militari, ma anche privilegi: assenza di obblighi agrari, di imposte e di tasse, libertà religiosa, auto-governo e autonoma amministrazione della giustizia. I nuclei militari si auto-sostenevano, non gravando sull’Impero. Caratteristica della Vojna krajina (Confine militare) era la dinamicità della frontiera: alle frequenti incursioni ottomane si aggiungeva il flusso di popolazioni in entrambe le direzioni. Detto flusso era costituito da contadini, in gran parte ortodossi, che venivano dall’Impero ottomano, attratti dal regime speciale del Confine militare, oppure da servi della gleba in fuga verso l’Impero ottomano per sottrarsi alle sempre maggiori imposizioni cui erano sottoposti. La Vojna krajina fu mantenuta fino al 1881, ben dopo la cessazione della sua ragion d’essere, proprio perché rendeva disponibile un buon numero di soldati, che costituivano il più efficiente e meno costoso nucleo dell’esercito austro-ungarico. La chiesa cattolica e i signorotti croati non tolleravano i privilegi di questi serbi ortodossi militarizzati. Si consolidò così nel tempo una mentalità di odio, che perdurò anche molto dopo la fine del sistema che giustificava la funzione dei krajišnici e giunse fino ai nazionalismi moderni. I referendum si fanno spesso, ma non si mai come vada a finire....poi

Bruno Maran


1° aprile 1991 – Accesa la miccia della polveriera. Alcune circoscrizioni della Bosnia occidentale a maggioranza serba istituiscono un’enclave autonoma sul modello della Krajina serba di Croazia. Allarme tra i musulmani, che vedono un’annessione da parte della Serbia dei territori a maggioranza serba. La Bosnia è una “Jugoslavia in piccolo”: il 31,3% sono serbi, il 43,7% musulmani, il 17,3% croati, il 7,7% jugoslavi, ma nessun popolo è maggioranza assoluta. Non esistono regioni abitate da una sola nazionalità, il guazzabuglio è inestricabile, sono consueti i matrimoni misti, specie negli anni ‘70–‘80. I musulmani di Bosnia non sono né serbi né croati né tantomeno eredi dei “turchi”, sono eredi della slavità convertiti davanti all’invasore. Molti si definiscono bosniaci, qualcuno ha introdotto il termine “bosgnacchi”, ma rimane l’uso distorto del termine musulmano, che richiama un legame all’Islam che non sussiste nella Bosnia laica e multietnica. La “bosnicità” è un concetto ampio, seppur ambiguo. Sarajevo vuole esprimere una diversità rispetto a Belgrado e Zagabria, temendo d’essere stritolata dal confronto tra le due maggiori capitali

Bruno Maran


4 agosto 1995– Dopo raid aerei Usa sulle postazioni missilistiche serbe, condotti da aerei senza pilota decollati dall’isola di Brač, alle 5,00 l’esercito croato lancia l’Operacija Oluja (Operazione Tempesta) per la riconquista dei territori della Krajina. Le forze Onu sono avvertite che sta per iniziare un’operazione per “ristabilire la Costituzione, la legge e l’ordine”. Un esercito di 200.000 uomini, di cui 120.000 mobilitati nei giorni precedenti, rioccupa il territorio, ripulendolo dell’intera popolazione, che abbandona i campi, le
case, ogni bene, perfino pasti sulla tavola, per raggiungere con auto, trattori e altri mezzi la Bosnia e la Serbia. Si oppone una forza serba a malapena di 60.000 uomini, di cui 20.000 inadatti alla battaglia. Mentre le artiglierie e i carri armati sputano sui serbi tonnellate di granate e dal cielo li martellano gli aerei della Nato, decollati dalla portaerei Roosevelt nell’Adriatico, Radio Zagabria diffonde un ipocrita messaggio di Tudjman, il “Supremo” croato,
che invita le popolazioni serbe a restare nelle loro case e a non aver paura.
Coloro che accolgono l’invito finiscono di lì a poco trucidati. Molti sono uccisi lungo la strada, mitragliati da terra e dal cielo o vittime di sassaiole e linciaggi mentre attraversano i territori croati. L’operazione si rivela la più imponente, in termini di impiego di uomini e mezzi, dall’inizio del conflitto.
Due Caschi blu polacchi dell’Uncro, la missione di pace delle Nazioni Unite, sono feriti, mentre un militare danese è ucciso da un tank croato nei pressi di Petrinja, probabilmente per essersi opposti all’occupazione di una postazione Onu. Le milizie di Knin, impreparate all’attacco, si ritirano verso Banja Luka.

Dalla Jugoslavia alle repubbliche indipendenti Infinito edizioni


5 agosto 1995 - L’Armata croata Hvo si rende protagonista di una delle operazioni di “pulizia etnica” più rilevanti di tutto il periodo 1991-1995.
Nella Krajina, le milizie croate del gen. Ante Gotovina, spesso drogate e ubriache, compiono, nei giorni e nelle settimane successive, atrocità contro i civili serbi rimasti. Le truppe di “liberazione” entrano nelle deserte cittadine di Drniš, Vrlika, Kijevo, Benkovac, in certi punti superando persino il confine bosniaco. Zagabria impiega uno speciale reparto antiterrorismo chiamato Granadierine, i cui appartenenti portano sulla divisa un dragone rosso. Le forze serbo-bosniache sono costrette ad arretrare. Il generale bosniaco mussulmano Dudaković dopo furiosi combattimenti a Ličko Petrovo Selo stringe la mano al collega croato Mareković sul ponte di Trzačka Rastela, che scavalca il fiume Korana, il confine tra Bosnia e Croazia.
Soldati croati sparano contro una posizione Onu tenuta da militari cechi, ne feriscono cinque, due muoiono dissanguati perché i croati ne impediscono l’evacuazione.
Si stima che 200-250mila serbi siano obbligati alla fuga davanti all’esercito croato. I fondati timori di una “contro-pulizia etnica”, costringono alla fuga migliaia di civili serbi. Secondo Amnesty International, tutte le case abitate dai serbi sono saccheggiate, un terzo dato alle fiamme e interi villaggi distrutti. Gli 8mila chilometri quadrati della Krajina, della Slavonia occidentale e della Dalmazia tornano sotto il controllo croato dopo quattro anni, anche grazie agli accordi segreti tra Zagabria, Belgrado e Washington. Nonostante gli appelli del leader serbo della Krajina Martić e di quello serbo-bosniaco Karadžić, Milošević ordina all’Armata federale di rimanere inattiva di fronte
all’offensiva croata, che sfonda ovunque e conquista Knin, dove sono catturati anche 200 soldati Onu. Un debole corridoio umanitario sarà approntato, per tacitare le deboli riprovazioni del Consiglio di Sicurezza e il richiamo del Gruppo di Contatto. Le reazioni all’Operazione Oluja-Tempesta sono molteplici e di segno diverso. Mentre Russia e Unione europea condannano
l’offensiva, gli Usa dichiarano di comprenderla e giustificarla perché elemento decisivo per la stabilizzazione dei Balcani. Si prospetta una divisione del territorio bosniaco tra la parte serba e quella croato-musulmana. Un ufficiale di collegamento croato racconta alla stampa che alcune settimane prima il gen. Vuono della Mpri ha avuto un incontro segreto nell’isola di Brioni con il gen Červenko, capo di Stato maggiore croato, l’architetto della campagna di Krajina. Nei giorni che hanno preceduto l’attacco si sono tenute almeno dieci riunioni tra il gen.Vuono e gli ufficiali croati che pianificavano l’operazione. Il 5 agosto, giorno della presa della capitale della Repubblica serba di Krajina, Knin, è festa nazionale in Croazia.

Bruno Maran


7 agosto 1995 - la cronaca postuma di oggi presenta una mia photo della Krajina "liberata....
è un lunedì: le forze croate entrano a Dvor na Uni, Topuško, Donji Lapac, Srb, Vojnić e in altri centri… disabitati. Subito dietro l’esercito vi è la polizia militare, che ripristina i collegamenti telefonici, riporta le vecchie indicazioni stradali. Via la targa Khnh in cirillico. Polizia è “pulizia immediata”. Arriva un’équipe per installare Radio libera Knin.
Via via che le truppe croate scendono dai monti Dinarici, le colonne “liberatrici” si incontrano. A sera, il ministro della Difesa croato Gojko Šušak, un ustasha erzegovese importato dal Canada, fornisce i dati ufficiali delle perdite: 118 morti e 1.430 feriti, ma i combattimenti non cessano. Nel momento della conferenza stampa del ministro Sušak, 100mila profughi si accalcano in direzione di Banja Luka, bersagliati da colpi di artiglieria.

8 agosto 1995 – Ogulin, Josipdol, Vojnić, Plaški, Ličko Jesenice e Saborško sono ridotti a un deserto. Funzionari dell’Unhcr affermano di aver disposto l’invio di centinaia di feriti a Banja Luka e di aver visto decine di mezzi di trasporto incendiati. Fra Topuško e Dvor na Una decina di migliaia di civili sono imbottigliati. Di tanto in tanto arriva qualche cannonata da lontano. Dai campi attraversati dalla strada che porta al confine, i contadini serbo bosniaci offrono cibo e acqua ai profughi oppressi dal caldo e dalla sete. Da Belgrado arriva l’ordine di accogliere in Serbia solo donne, bambini e anziani, respinti i profughi in grado di combattere. Caschi blu ucraini riportano che soldati bosniaci hanno incendiato case in località della Banovica croata. Akashi, Milošević e Janvier s’incontrano per discutere le sorti della Slavonia.
Roger Charles, un tenente-colonnello in pensione e ricercatore della Marina americana, premiato per la sua opera dalla Investigative Reporter and Editors Association, è convinto che la Mpri abbia svolto un importante ruolo nella campagna di Krajina. ”Nessun Paese può passare dalle milizie composte da canaglie raccolte per la strada alla messa in atto di un’offensiva militare professionale, senza avere ricevuto aiuto”, afferma. ”I croati hanno fatto un buon lavoro di coordinamento dei mezzi blindati, dell’artiglieria e della fanteria. Non è qualcosa che s’impara mentre si riceve un addestramento sui valori democratici”.

Dalla Jugoslavia alle repubbliche indipendenti


10 agosto 1995 – Ucciso dai croati il giornalista della Bbc John Scoefield, mentre con tre colleghi riprendeva un villaggio in fiamme tra Karlovac e Bihać; la scusa è aver scambiato la telecamera per un’arma. La Krajina è sigillata ai giornalisti stranieri, facilitando le efferatezze.
Un ufficiale della Difesa territoriale serba dichiara a Paolo Rumiz de Il Piccolo di Trieste che la gente serba ha iniziato a fuggire immediatamente con l’inizio dell’Operazione Oluja.

Bruno Maran



Dal libro "Croazia, operazione Tempesta"" di Giacomo Scotti - Gamberetti 1996
"Slogan ustasha nell’osteria"
In osteria riconosco un gruppo di uomini, che urlano slogan ustaša,
esibendo magliette con l’effige dell’eroe Gotovina. Li riconosco, avendone vista la fotografia sui giornali più volte alcuni anni addietro; furono processati e condannati per strage di civili nell’ex Krajina. Le pene furono basse, poi intervennero amnistie ed eccoli di nuovo liberi a ubriacarsi.
Esco dall’osteria subito dopo averli riconosciuti, son gente pericolosa, mi dico. Fuori, sulla strada, mi ferma un istriano di Pola, che mi chiama per nome e cognome. É stato combattente dell’esercito croato con una brigata istriana nel ‘95; insieme a croati e italiani di Pola, Dignano, Gallesano, Albona, fu impegnato dapprima nella “liberazione” della Krajina e poi nei rastrellamenti. Il conoscente polese mi racconta un aneddoto mai prima d’ora sentito. La sua e altre brigate addette a rastrellare i boschi e i monti avevano l’ordine di non fare prigionieri, dice.
Un giorno, durante il rancio, gli istriani intonarono un canto popolare istro-veneto, "La mula de Parenzo", seguita dalla nostalgica canzone "Varda la luna, come che la cammina, la passa i monti, il mare e la marina". Nel bel mezzo, il canto venne interrotto dall’apparizione sulla scena di una ventina di soldati nell’uniforme della Krajina con i fucili e mitra a tracolla e le braccia alzate. Si arrendevano. A quel punto, con un secco comando in lingua croata, il comandante del reparto istriano, istriano pure lui, ordinò ai suoi uomini di raccogliere le armi offerte dal nemico.
Solo allora, ascoltando quell’ordine nella comune lingua croato- serba, i serbi compresero d’essersi arresi all’esercito di Tudjman.
La loro morte, pensarono, era sicura. Spiegarono, dopo, di essere stati tratti in inganno dalle canzoni. Una lingua straniera, dunque erano soldati dell’Uncro, soldati dell’Onu…
Il comandante del reparto, nel consegnarli al più alto comando, consegnò pure la lista di nomi e cognomi dei prigionieri, dicendo: “Verremo a trovarli e vogliamo trovarli tutti vivi!”.
Forse lo sono ancora, gli unici sopravvissuti fra i prigionieri fatti nella Tempesta..
Un onore e un piacere per me ospitare Giacomo Scotti nel mio libro Dalla Jugoslavia alle repubbliche indipendenti.
Bruno Maran


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